Dolci e salati dei nonni di Frank Sinatra
Lercara Friddi, per le sue vicissitudini sociali, demografiche ed economiche, si conferma come uno dei centri più interessanti della Sicilia. I nuclei familiari, provenienti dai paesi viciniori, che nei secoli hanno ingrossato il tessuto urbano, e la forte struttura commerciale che nel tempo si è contraddistinta e che in parte ancora oggi resiste, hanno contribuito a importare alcune peculiarità gastronomiche davvero singolari.
Nasce e prolifera, non per caso, ma grazie all’arrivo quasi apocalittico di numerose popolazioni dei paesi viciniori richiamati dall’odore pungente dello zolfo e dalla speranza di sovvertire le proprie sorti economiche. In questa migrazione hanno portano con loro, culture, storie, speranze, ma anche i monumenti gastronomici come la ‘nfriulata, ‘u cudduruni, la pantofola, ecc. di cui la cittadina della Valle del Torto si fregia. Ma c’è di più. Lercara Friddi, terra dei nonni della voce più straordinaria di tutti i tempi Frank Sinatra, paese natale del famigerato Laki Luciano, dei misteri e dei fantasmi di Colle Madore, dagli odori irresistibili di fieno falciato di tarda primavera che riesce a conciliare il sonno dopo il tramonto del sole, dell’epopea intrisa di sviluppo e miseria della Sicilia, odori dimenticati di zolfo, in un silenzio ozioso e trascurato, resiste, una delle gastronomie più interessanti dell’Isola.
Un mix di dolce e salato, di piatti unici e eccellenti dessert. Arrivati non contemporaneamente ma con ogni singola famiglia che nel proprio carro pieno di vettovaglie e suppellettili trasferiva anche la sua cultura alimentare.
A tavola di nonna Rosa
Da piccolo Frank o Ciccineddu o Francuzzu sarà stato invitato da nonna Rosa. Da lercarese doc avrà preparato qualche piatto della terra di origine. Nonna Rosa e nonno Francesco lo avranno tenuto in braccio, coccolato come solo i nonni sanno fare. Ci saranno state quelle lunghe tavolate delle feste comandate e proprio lì, avrà sentito i profumi di interminabili ragù, del condimento dei brusciuluna, polpette di capuliatu o di pani cucinati nella salsa di pomodoro, melanzane alla parmigiana e perché no ‘nfruiliulate, cudduruna, pantofole, quei piatti della tradizione lercarese che il piccolo Frank avrà sicuramente potuto degustare, anche se col tempo, dopo la morte dei nonni e delle zie, avrà perso la possibilità di continuarli a mangiare, ma queste cose non si dimenticano mai, resistono al tempo e si chiama dalle nostre parti ‘u disiu quella voglia che non sono solo ricordi ma fa parte integrante della tua vita.
Jenny Hammerton ha scritto che: “Frank Sinatra, a detta di tutti, era un cuoco molto abile. Naturalmente prediligeva le ricette italiane e si proclamava la prova vivente un uomo che amava tutta la pasta, i sughi e i pani tradizionali d’Italia, nonostante ciò, si manteneva snello e magro”.
‘Nfriulata
Tra queste leccornie primeggia la ‘Nfriulata o come veniva chiamata anticamente la ‘Ngirata, si tratta di fagottini di pane, ripieni di salsiccia sbriciolata, cioè privata del budello, bietoline selvatiche (giri), patate a dadini, cipolla, pezzettini di formaggio (pecorino stagionato o caciocavallo palermitano) e naturalmente condite con sale e olio extravergine di oliva e un po’ di spezie che non manca mai.
Un piatto unico che in Sicilia vanta tante varianti, sia nel nome, sia nel contenuto e nelle forme. Così a Gibellina si chiama, ‘nfigghiulata, a Trapani sfigghiulata, a Castronovo ‘nfriulata, a Milena (in provincia di Caltanissetta) e ad Aragona (in provincia di Agrigento) ‘mbriulata, a Ciminna ‘nfriulata, ma troviamo altri nomi come m’ briulate, miscatedda, miscate, n’ friulata, ecc.
Il piatto è noto nella Sicilia Occidentale, mentre in quella Orientale imperano le cugine “scacce”.
Difficile risalire alle origini, qualcuno1 che si è cimentato nello studio etimologico del termine fa derivare la parola‘nfriulata dal latino infra, “nel mezzo” e lata, “nascosta”, con riferimento alla carne “nascosta” dentro la pasta del pane.
Si tratta comunque di un piatto che ha origini medievali, lo è per la modalità di realizzazione ma anche per la sua specificità. L’uso di riempire questi fagottini di pane era comunissimo a cavallo dell’anno mille.
La ‘nfriulata, prelibatezza che affonda la propria origini nei meandri della storia, che nel suo impasto con farina di semola di grano duro nasconde un tesoro che i più intriganti chiamano chinu. Qualcuno la fa derivare dal latino infriare da cui infriatam -sminuzzata-, con riferimento alla farcitura. In ogni caso, a partire dall’ipotesi di una Ciminna bizantina, la ‘nfriulata si conferma un reperto che testimonia una lunghissima tradizione.
E’ un piatto unico delle feste invernali, ed è comandato dalla presenza delle bietoline selvatiche a cui si riferisce il nome antico, specie vegetale, che è determinata dall’andamento climatico.
Il piatto è anche determinato dalla presenza della salsiccia sbriciolata che in tempi passati incominciava ad essere preparata nel periodo autunnale.
La ‘nfriulata lercarese si distingue dalle altre e quindi può essere ritenuta singolare, principalmente dalla forma, a differenza di tante altre non assume la forma allungata costituita da due sfoglie di pasta suturate la forchetta, bensì, ha una forma di fagottino che viene chiuso dalla parte sottostante, l’abilità sta nel chiudere la formina con la stessa quantità di pasta che avvolge l’infriulata.
La sua storicità è legata anche all’essenza di pomodoro, è questo particolare la dice tutta sull’origine medievale. Si caratterizza anche per i componenti che devono essere regolarmente tagliati a pezzettini e inseriti tutto a crudo.
Quale che sia l’etimologia, la ‘nfriulata è un piatto unico di facile trasporto e consumo: è forse per questo motivo che qualcosa di simile alla nostra ‘nfriulata viene cucinata anche nella Cornovaglia e viene chiamata cornish pasty: consumata come pasto dai minatori di carbone inglesi, i quali, secondo quanto tramandano i racconti popolari, pare che mangiassero questa prelibatezza tenendola tra l’indice e il pollice,
con le mani annerite, e, alla fine, buttassero l’ultimo boccone che si era sporcato di carbone.
‘Nfriulata di Lercara Friddi. Pagnotta rotonda di12 cm di diametro circa. Sfoglia imbottita Componenti: Semola, lievito di birra o naturale, strutto o olio d’oliva, acqua, sale, bietole selvatiche (giri) Per la farcitura possono essere impiegati anche pezzetti di salsiccia, lardo, patate e pecorino. Lievita dopo essere stato farcito. E’ preparata anche a Castronovo di Sicilia (PA) con qualche variante.
U cudduruni
Paese che vai cudduruni che trovi. In Sicilia, ogni paese ha il proprio cudduruni, altra grazia di Dio, di cui la popolazione locale va fiera; guai a denigrarlo perché la lite è assicurata.
Benché sul nome tutti concordano, quello che divide è la modalità di preparazione. Per fare qualche esempio. A Troina (En), “u cudduruni”, è un piccolo panetto di pasta lievitata a forma rotondeggiante passato nello zucchero e nella cannella, oppure, in una particolare versione salata, cioè, farcito, prima della frittura, con filetti d’alici sott’olio, oppure, con ricotta fresca.
A Raffadali (AG) ‘u cudduruni si realizza con due strati di pasta pizza e all’interno vengono sistemati o spinaci o i zarchi, bietole, olio patate, cipolle, acciuga, formaggio pecorino, mentre superiormente si spalma del pomodoro passato.
A Lentini e nella vicina Carlentini (SR) ” ‘u Cudduruni”, è la focaccia di spinaci o broccoli, tipico piatto della vigilia di Natale. Il Cudduruni di Lentini è una gustosa focaccia chiusa realizzata con semola di grano duro e ripiena, nelle tre versioni di base, di cipolla, broccoli neri o anciti (bietole selvatiche).
Nel siracusano u cuddruni è un disco di pasta lievitata sulla cui parte superiore vanno disposti broccoli, già scaldati e tagliati a pezzetti, cipolla fritta, un po’ di salsa di pomodoro, pezzetti di acciuga, fettine di formaggio, capperi, olive nere senza noccilo, pepe, sale e olio. Tutti gli ingredienti coprono metà della pasta con la restante parte si chiude a portafogli u cudduruni, intrecciandone i bordi evitando che si possa aprire. La pasta va bucherellata e unta di olio.
A Lercara Friddi, “u cudduruni”, reliquia gastronomica locale, è una sorta di pizza condita con pomodoro, pecorino, cipolla, acciughe ed origano.
Ma la diversità non finisce solo nelle modalità di preparazione e nell’uso del condimento. La cosa si complica quando si deve stabilire se: “il cudduruni della mamma è migliore di quello della suocera”. Allora arrivano i problemi, che sono alquanto irrisolvibili. Dispute che non hanno un inizio e mai una fine.
Di una cosa siamo certi che ‘u cudduruni è l’antesignano della moderna pizza. L’origine del cudduruni va ricercata nella cultura ellenica trasmigrata in Sicilia tra il VI e V secolo a.C. Ateneo di Naucrati nella sua opera “I sofisti a tavola”, elenca circa cinquanta tipi di pane fabbricati in Grecia, di tutte le forme e per tutte le tasche. Oltre al pane più comune chiamato amogee, realizzato con farina ottenuta da una miscela di cereali, annoverava la kollura, una tonda pagnotta di farina di grano, che i Greci portarono successivamente in Sicilia e giunta fino ai giorni nostri con il termine dialettale di Kollura o dialettalmente cuddura dal greco “rotondo” o “ciambella”. Una foggia di pane nelle diverse tipologie ampiamente diffusione in tutta l’isola. E’ possibile desumere che il cudduruni possa intendersi, com’è d’uso nella cultura siciliana, una cuddura più grande, cioè: cudduruni. Le cuddure erano offerte a Kore e Demetra. Alla dea, simbolo della terra fertile e della vegetazione, venivano dedicati i Misteri Eleusi, feste di iniziazione che rimandano alle solennità elleniche introdotte in Sicilia dal gran Sacerdote gelese Telines. In questa circostanza venivano preparate dei pani, oltre alle a forma di gallo, consacrati a Kore, anche la kuddura.
“L’atlante dei pani siciliani” prodotto dal Consorzio Ballatore definisce ‘U cudduruni”, “come una foggia di pane rotonda del diametro di circa 15 cm con un’altezza massima di 2 condito con pomodoro, pecorino, cipolla, acciughe ed origano, da consumare debitamente fumante”.
Il “cudduruni” va consumato caldo e fumante accompagnato, obbligatoriamente, da un buon vino rosso.
Comunque sia, ‘u cudduruni è stato un alimento da sempre gradito, perfino dai poveri braccianti, i quali venivano incitati a lavorare con la felice promessa “cu nun sciappa timpuna, nun mancia cudduruna”. Un altro proverbio ricorda che: Ognunu tira la bracia a lu so cudduruni, ognuno pensa ai propri interessi. Ed ancora “A li santi nun prumettiri diuna, né a li carusi cudduruna” ai santi non promettere digiuni e ai bambini cudduruni.
Dai tre proverbi si evidenzia la bontà popolare del cudduruni. E’ lo è per davvero. Appena sfornato il suo profumo frastorna, riempie le abitazioni, le strade, ma anche interi quartieri. E’ d’obbligo, per avere disturbato il vicinato con il suo profumo, farne assaggiare un pezzettino alle vicine di casa. Nonostante la cortesia, state sicuri, che ognuna di esse emetterà, condannandolo, la propria sentenza, dicendo che il loro cudduruni è il migliore del paese.
E’ una leccornia per tutte le stagioni: ottima d’inverno con il freddo, ma anche in campagna all’aria aperta. U cudduruni è sinonimo di festa e di allegria. E’ possibile annoverarlo come una delle squisitezze dell’altra “Grazia di Dio” e piatto unico per eccellenza.
Contrariamente a quanti dedicano la notte di S. Lorenzo all’evento nazionale “Calici sotto le stele”, l’associazione Màdores di Lercara Friddi, l’ha consacrata ad uno dei gioielli gastronomici locali, “u cudduruni”.
Ricetta Cudduruna
Ingredienti per 4 persone: 500 g di farina, 25 g di lievito di birra, 1 kg di pomodori maturi, 8 spicchi d’aglio, 100 g di pecorino grattugiato, 100 g di filetti d’acciuga sott’olio, olio extraverginne d’oliva, origano, sale q. b.
Preparazione: Sciogliere il lievito in 2 di d’acqua. Amalgamare a parte la farina setacciata con una presa di sale; unire il composto preparato e impastare a lungo. Durante la lavorazione, incorporare altra acqua e procedere a fasi alterne, sbattendo energicamente la pasta e tirandola con le mani. Dopo una ventina di minuti raccogliere l’impasto a palla e adagiarlo in una ciotola infarinata; praticare, quindi, un taglio a croce e coprire con un canovaccio. Dopodiché fare lievitare circa due ore. Subito dopo manipolare ancora un po’ l’impasto, dividerlo in panetti uguali e stenderli, in sfoglia sottile, su una tenda unta d’olio. Aggiungere le acciughe spezzettate, i pomodori, pelati e sminuzzati, e l’aglio a fettine. Infine cospargere il pecorino, l’origano e un filo d’olio d’oliva. Fare riposare per un quarto d’ora, infornare alla temperatura di 250° e lasciar cuocere per circa 25 minuti.
I dolci della tradizione lercarese
La Pantofola
“Dietro la cattedrale nella piazza Setteangeli3 esisteva fino al 1860 l’omonimo monastero, distrutto dai bombardamenti borbonici, le monache preparavano per il periodo natalizio un impasto con pasta dolce: farina e zucchero, mandorle finemente tritate, aromatizzato con miele, succo d’arancia o cannella, il loro nome e tuttora la mustazzola, farciti con conserva di pistacchio, queste mustazzola li chiamavano “pantofoli”.
Così il prof. Rocco Giannì racconta dell’esistenza di questo dolce. Pare che il dolce sia arrivato a Lercara Friddi attraverso qualche suora trasferita da Palermo nell’entroterra siciliano.
Comunque sia, Lercara Friddi si fregia per la preparazione della pantofola, specialità tipica delle feste natalizie, un dolce che a detta di tutti “non si calza ma si mangia”. Presenta una forma ovoidale, simili ai classici pastizzotti, ha una lunghezza di circa otto cm e una larghezza di cinque, il peso si aggira attorno ai 90 gr. di consistenza fragrante, compatta e di colore bruno nocciola. Il dolce viene glassato (marmuratu), cioè rivestito da un composto costituito da albume d’uovo, zucchero a velo e succo di limone, oppure spolverata con “zucchero a velo”, secondo i gusti. Il ripeno, ‘u chinu”, è costituito da mandorle tritate (ecotipi locali tessitura, cavaleri, reggina, zà Gnazzidda), frutta candita e di recente con aggiunta di scaglie di cioccolato; la coloritura è gialla con sfumature che variano dal paglierino all’ambrato, con consistenza morbida. Un dolce per ricchi, lo dice il suo prezioso contenuto, il nome, ma soprattutto la sua differenziazione netta con il cucciddatu, dolce proletario, considerato povero, al punto da essere lanciato, in passato, dai giovanotti lercaresi, alle ragazze all’uscita dalla chiesa madre la notte di Natale, forse per preannunciare la dolcezza che ognuno di essi voleva riservare a queste giovani donzelle o come spacconeria. Leccornia che veniva preparata con un tipo di farina ricavato da un grano gentile chiamato maiorca i cui costi erano proibitivi al punto che era celebre il detto: “Ti voi ‘nsignari a pagari ki detti simina maiorca e chianta catarratti”; i meno facoltosi, per ottimizzare il costo e la qualità, mescolavano la maiorca con la farina di grano duro. Madri, figlie, nonne, amiche, ecc. qualche settimana prima del Natale, si riunivano nei pianoterra, dotati di forno a legna, per l’occasione trasformati in laboratorio dolciario, e iniziavano la lunga preparazione che durava diversi giorni. Con dovizia e pazienza si predisponevano questi meravigliosi gioielli alimentari che obbligatoriamente dovevano consumarsi all’annuncio della nascita di Gesù. Anticamente questi dolci natalizi erano chiamati pastizzotti e in molti paesi continuano a chiamarsi così, vedi Castronovo di Sicilia.
A cambiare il nome è stato il rinomato pasticciere Luigi Milazzo, dopo che sentì chiamare i suoi prelibati dolcini da una nobildonna palermitana, pantofole. Da quel momento i pastizzotti cambiarono identità, pur rimanendo intatta la loro straordinaria bontà. Comunque sia, la pantofola è stata e continua ad essere il dolce per antonomasia della cittadina zolfatara di Lercara. Comunque sia, la pantofola è stata e continua ad essere il dolce per antonomasia della cittadina zolfatnra di Lercara, il paese dei nonni di Frank Sinatra e del famigerato Lucky Luciano.
Un dolce, che obbligatoriamente, tutti coloro che da Palermo si recavano ad Agrigento e viceversa, portavano in dono a parenti ed amici. Un’usanza che porta bene, vista la nomea e gli estimatori che questo dolce si è conquistato. Si racconta che tra i sostenitori della pantofola ci fossero il generale Carlo Alberto Della Chiesa e lo scrittore Leonardo Sciascia, entrambi, quando transitavano da Lercara, approfittavano dell’occasione per acquistare la suadente pantofola. Lo scrittore lercarese Nicola Sangiorgio su questa leccornia ha anche scritto alcuni versi che riportano le confezioni dei pasticceri:
Mennuli, cucuzzata, zuccaru e ciucculata di la pantofula formanu lu cori, chistu intra un nidu di pasta travagghiata, rivistuta di zuccaru vilatu, di tutti soddisfa lu palatu.
Alla pantofola, pur con discontinuità, i lercaresi dedicano anche una sagra. Ma veniamo alla ricetta dei giorni nostri.
Ingredienti: Farina 00, Mandorle di varietà tipiche siciliane, Zucchero semolato, Zucchero a velo, Strutto, Latte, Vino liquoroso siciliano, Uova, Frutta candita, Aromi naturali (scorza di arancia e/o di limone e/o cannella).
Preparazione: l’ impasto, ottenuto dalla lavorazione di farina 00, strutto, uova, latte, zucchero, vino liquoroso, aromi naturali, viene ridotto in porzioni, modellato e farcito con il ripieno di mandorla, chiamata “u chinu”. Il ripieno (“u chinu”), ottenuto dalla mandorla bollita, sbucciata e macinata addizionata con zucchero, aromi naturali, frutta candita (può essere arricchito con scaglie di cioccolato fondente). Le pantofole vanno infornate e cotte alla temperatura di circa 200 C° per un tempo che varia tra i quindici e i venticinque minuti. Accompagnare il dolce con un vino liquoroso.