La Sicilia profumata. Le gelsominaie e il riscatto del lavoro Gelsomino
La vita è come andare in bicicletta.
Per mantenere l’equilibrio, devi muoverti.
(Albert Einstein)
di PIPPO ODDO – Quando Santì La Rosa mi chiese di scrivere una nota per questo libro, non esitai ad accettare per vari motivi. Innanzitutto perché, pur avendo accennato alle lotte delle gelsominaie di Milazzo in due saggi, sentivo di non avere ancora reso il giusto omaggio ai suoi genitori: Tindaro La Rosa ed Eliana Giorli, animatori del movimento volto a migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle raccoglitrici di fiori di gelsomino, che fornivano la materia prima all’industria profumiera francese. Il fenomeno ha sfiorato il mio vissuto di sindacalista e di studioso. Il bisogno di approfondirlo scaturisce anche dal fatto che l’opera è impreziosita da una ricerchia di Venera Tomarchio, che attesta l’esistenza del fenomeno in un’altra plaga del territorio siciliano, che conosco bene. Mi sia, infine, consentito di confessare che non sono mai stato indifferente al fascino del gelsomino.
D’altronde, per gli arabi il gelsomino è «il re dei fiori» e per i poeti «il bello di notte», perché sprigiona nottetempo il massimo del suo profumo. Nato – vuole la leggenda – da un gruppo di stelline ribelli cadute dal cielo, il gelsomino è coccolato dalle due più lucenti maliarde del firmamento: Luna e Venere. Intenso e durevole, l’odore del delicato fiore cattura la vista, l’olfatto e il gusto tutte le volte che si ha la fortuna di rifarsi il palato con il biancomangiare, il gelato al gelsomino o il gelo di mellone. Dolce al cucchiaio tutto palermitano, il gelo di mellone è un budino di succo d’anguria cotto e guarnito con fiori di gelsomino. Fino all’inizio degli anni ’60 del secolo scorso quel dolce (che sublima l’arte pasticcera inglese e i profumi d’Oriente) a Palermo si mangiava in occasione del festino di Santa Rosalia, dopo che i devoti della Santuzza, reduci dalla messa di mezzogiorno, tornavano a casa recando in mano un mazzetto di fiori di gelsomino (i cui steli erano protetti da una canna), acquistato per pochi spiccioli davanti al sagrato della chiesa. Mazzetti identici chi scrive li ha visti nel 1981 a Sidi Bou Said, in Tunisia, a pochi passi del Caffè des Nattes, uno dei più caratteristici bar della costa mediterranea, sosta d’obbligo per artisti e visitatori stranieri, desiderosi di sorseggiare l’esotico thè alla menta con pinoli, all’interno di un giardino aperto e fiorito. È un caso, o uno dei tanti precipitati storici degli scambi economici e culturali di lunga durata tra i siciliani e gli abitanti del Maghreb?
In questa sede ci interessa rilevare solo che quei deliziosi fiori in Sicilia evocano circa 40 anni di sudore, sofferenza e voglia di riscatto coniugati al femminile. L’eco di questa realtà cominciò ad arrivare alle mie orecchie di giovane sindacalista tra il 1968 e il 1969 nelle riunioni regionali dalla voce dei dirigenti provinciali della Camera confederale del lavoro e della Federbraccianti di Messina (Peppino Bontempo, Carmelo Tripoli, Salvatore Ucchino, Carmelo Biondo) cui, più tardi, si anche quella di Carmen Manna, animatrice del movimento femminile di Milazzo, di concerto con Eliana Giorli. Non credo d’avere mai incontrato Eliana, ma è come se l’avessi conosciuta per un’intera vita, dopo le cose che su di lei mi hanno raccontato il figlio Santì e la nuora Viviana. Il modo migliore per ricordarla, assieme a Tindaro e alle gelsominaie, è forse quello di tentare di capire come e perché, quando e dove sono nate le aziende che producevano gelsomino per il mercato.
Il paesaggio agrario e il lavoro delle donne nella Piana di Milazzo
«Fatta eccezione per la Piana di Milazzo, valorizzata dalle colture viticole già da qualche secolo – scriveva circa 50 anni fa Maria Teresa Alleruzzo Di Maggio, studiosa di geografia umana e architettura rurale –, l’organizzazione agricola intensiva del territorio costiero peloritano è un fatto recente, che non risale, nelle sue forme più razionali e complesse molto al di là di cento anni addietro […]. Secondo il catasto borbonico, i giardini coprivano il 2,9% del territorio, ma intorno al 1930 essi ne occupavano già il 5,3%. Dopo la crisi agrumicola del 1926, dovuta soprattutto alla propagazione nel Messinese del malsecco, gran parte degli impianti distrutti fu ricostruita rapidamente, i coltivi furono ispessiti e la produzione intensificata con la produzione di innesti che ne forzavano i ritmi produttivi (verdelli). Anche gli ortalizi, richiesti in primo tempo dai bisogni alimentari di un organismo in rapida ricostruzione (Messina), abbandonavano a partire dagli anni ’30 il ruolo di coltura di autosufficienza in un’economia di consumo e si aprivano agli sbocchi di un’economia di mercato, che ne determinava la diffusione su vasta scala in aree specializzate, soprattutto nella Piana di Milazzo. Sicché nel 1961 le colture irrigue risultavano occupare il 61% della superficie agraria di Milazzo, il 27% di quello di Barcellona e buona parte delle aree costiere tirreniche e ioniche limitrofe a Messina. La recente diffusione di queste colture, ma soprattutto la loro precipua destinazione ai mercati nazionali ed esteri, ha imposto il mantenimento di unità aziendali di medie dimensioni, frenando entro una certa misura la tendenza alla dispersione ed alla frammentazione fondiaria».
Il dato che la dice più lunga sui motivi agronomici per cui nel secondo dopoguerra nella Piana di Milazzo i gelsomineti davano bene o male lavoro a ben 2.000 donne, è quello dell’irrigazione. Il 61% della superficie agricola, ricordato dalla Alleruzzo Di Maggio, nei primi anni ’70 si riscontrava, forse, solo in poche altre plaghe fortunate della Pianura Padana, a voler credere a ciò che acclarò nel 1980 uno studio del Banco di Sicilia (di ben 118 pagine), pubblicato sulla prestigiosa rivista Nuovi Quaderni del Meridione: «In Sicilia l’indagine ISTAT del 1975 sulla struttura delle aziende agricole permette di rilevare una superficie irrigata di 172 ettari, pari al 10% circa della SAU dell’Isola, contro il 55% in Lombardia, il 32% in Piemonte, il 30% nel Veneto, il 18% nell’Emilia-Romagna, il 17% in Campania e nel Friuli-Venezia Giulia e il 16% per la media del Paese». L’abbondanza d’acqua a servizio di fertili suoli alluvionali, di cui godevano gli agricoltori in quel pezzo di Sicilia, è solo una delle precondizioni della genesi e dello sviluppo dei gelsomineti. Bisogna prendere in considerazione anche gli sbocchi di mercato e la possibilità di reperimento della manodopera femminile, la più adatta per la raccolta dei fiori di gelsomino e – perché no? – la meno costosa.
Quanto al mercato, grazie al suo porto (punto d’imbarco per le isole Eolie, meta preferita dai viaggiatori stranieri fin dal Settecento) e per la sua collocazione nella cuspide nord orientale della Sicilia, il Milazzese è stato oggetto di particolare attenzione di imprenditori di vari Paesi, se non altro perché la vicina città dello Stretto ha goduto ininterrottamente del privilegio di «porto franco» dal 1695 al 1880, cioè negli anni della prima rivoluzione industriale. Un libro di Rosario Battaglia del 2003, L’ultimo splendore: Messina tra rilancio e decadenza (1815-1920), descrive così l’importanza strategica dello scalo marittimo di Messina: «Nel porto messinese entravano soprattutto le merci provenienti dall’estero e in modo particolare i prodotti tessili e principalmente quelli inglesi, ma vi giungevano in cabotaggio anche i prodotti delle aree limitrofe calabro-sicule, che contribuivano massicciamente al flusso delle esportazioni. Dietro tale movimento pulsava la vita di una città mercantile dove il porto, di fatto, rappresentava un momento focale di un progresso economico che – come è stato rivelato [da Michela D’Angelo] –, “interessava non soltanto la città, ma coinvolgeva nell’ambito del traffico mediterraneo ed anche mondiale un’intera regione economica”».
La quantità di merci esportate dal porto di Messina arrivò a superare quella delle importazioni. «Per lungo tempo, sia prima che dopo il 1860», sono ancora parole di Rosario Battaglia, si esportavano prodotti di entrambe le sponde dello Stretto: «essenze e agro di limone (produzione locale e della vicina Calabria), seta (principalmente del Messinese e della Calabria), pelli di capretto e di agnello conce e crude. Ma le voci di gran lunga più forti dell’esportazione erano segnate […] dalle colture specializzate, costituenti peraltro il settore vitale dell’economia non solo messinese ma dell’intera Isola. La borghesia più attenta ed intraprendente aveva posto in esse la speranza di un profondo mutamento e, ampliandole, aveva mutato i metodi d’intervento e di conduzione». Il traffico marittimo incentrato per secoli sull’emporio messinese finì per contribuire alla formazione di una cultura materiale e di un orizzonte culturale, che tuttora influenzano i comportamenti di tutti gli strati delle popolazioni insediate nell’area peloritana e nella Calabria meridionale.
Al di qua e al di là del Faro si crearono, però, «dislivelli di cultura» fra le classi sociali, studiati dall’antropologo Alberto Cirese, e manifestazioni folcloriche di contestazione, perché il folklore (inteso con Gramsci come concezione del mondo e della vita dei ceti subalterni in contrapposizione con il ceto dominante) è – come scrive Luigi Maria Lombardi Satriani, calabrese che ha insegnato per molti anni materie antropologiche all’Università di Messina – «cultura di contestazione». Cosa che la classe dominante ha sempre tollerato, perché non ha mai impedito ai padroni fare scelte produttive che considerano il lavoro umano una fonte energetica non diversa da quella degli animali.
I ricchi proprietari terrieri della Piana di Milazzo, per esempio, fin dal ‘700 investirono sullo sviluppo del vigneto per la produzione di vino ad alta gradazione alcolica. Nel 1768 l’economista Giovanni Attilio Arnolfini scriveva, infatti, nel suo Giornale di viaggio e quesiti sull’economia siciliana: «È ricercato anche dalla nostra Sicilia il genere di vino quale si produce in abbondanza in tutte le parti, specialmente a Castelvetrano, Marsala, Castellammare del Golfo […], Vittoria, Mascali, Melazzo [sic], Siracusa, dalle quali marine escono fuori regno». Nella sua Civiltà della vite in Sicilia, Bruno Pastena calcola che a Milazzo nel 1848 i vigneti coprivano 1.461 ettari. Ma il vero boom si registrò a metà degli anni ’80, tant’è vero che nel 1885 la rivista Annali di agricoltura siciliana valutava «oltre ogni modo considerevole e specialmente nella Piana di Milazzo» il fenomeno dell’espianto degli agrumi per ritagliare spazio alla viticoltura, «con una concorrenza quasi frenetica in quei proprietari da non sembrare quasi credibile, senza timore di fillossera1, così vicina nelle contrade messinesi». Altro comparto agricolo connotativo del diorama produttivo del Milazzese che si sviluppò nell’età preindustriale fu il frutteto specializzato, che – come il vigneto – nella stagione della raccolta impiegava molta manodopera femminile, reclutata anche nei centri vicini.
Non furono, però, del tutto abbandonate le vecchie attività e restarono in vigore alcuni patti agrari degli anni in cui l’agricoltura produceva per l’autoconsumo locale. Tra questi la colonia migliorataria, che scaricava sulla famiglia contadina concessionaria del fondo parte delle spese d’impianto delle piante miglioratrici e le spese di coltivazione e raccolta. Ma c’erano anche altre forme di colonia impropria, che contemplavano il diritto del contadino alla casa colonica, molte delle quali erano, in realtà, tuguri di fango e paglia, che ancora nel secondo dopoguerra presentavano «due spazi separati da cannizzi e portali di tela colorata a strisce», dove i coloni allevavano conigli e polli, «ma solo per far figura con il padrone (“u signurinu”) per le regalie delle feste quali Natale e Capodanno, Pasqua e Ferragosto». Parola di Tindaro La Rosa. Si aggiunga che certi proprietari che, d’inverno, abitavano nei palazzi del centro e, nel periodo di raccolto nelle tipiche «ville fattorie» peloritane, imponevano alle donne della famiglia colonica anche dei periodici servizi di lavoro domestico. Accanto alla casa colonica le inquiline coltivavano, però, l’orto per la famiglia.
In alcune aree limitrofe alla Piana e dei vicini Nebrodi, fino alla caduta del fascismo e anche dopo, sopravvisse la sericoltura, attività basata sull’allevamento del baco mediante la coltivazione del gelso, le cui foglie nutrivano i filugelli fino alla loro trasformazione in bozzoli. Le operazioni successive erano la trattura delle bave dei «vermi» e la tessitura del filo. Nelle famiglie contadine la sericoltura finì per produrre la divisione sessuale del lavoro: gli uomini coltivavano i gelsi e ne raccoglievano le foglie; le donne allevavano i bachi tra le pareti domestiche, estraevano i fili di seta e li tessevano. Le mogli e le figlie dei bracciatili nullatenenti, le zitelle povere, le vedove e le familiari degli emigrati temporanei spesso allevavano i filugelli acquistando (anzi barattando con servizi domestici saltuari) le foglie di gelsi da produttori delle vicine contrade. La gente del luogo conosceva, però, le ansie e le speranze delle sventurate donne che badavano ai filugelli con la stessa attenzione delle mamme verso i figli. E non gridava mai allo scandalo se le uova del mutevole insetto, avvolte amorevolmente in un panno di lino, erano fatte scovare tra i seni delle allevatrici.
I gelsomineti della Sicilia sud-orientale
Credevo di avere una discreta conoscenza della mia regione e della storia dei suoi variegati paesaggi agrari. Ma cominciai a dubitarne alcuni mesi addietro, quando mi telefonò Santì La Rosa per chiedermi se fossi a conoscenza dell’esistenza in un non lontano passato di un gelsomineto nelle adiacenze della foce del fiume Cassibile, attestata da un toponimo evocativo del gelsomino. Gli risposi che non ne avevo sentito parlare mai. Sapevo, però, che da quelle parti c’erano le terre della marchesa Diana Gutkowski, un’estrosa nobildonna, mezza siciliana e mezza polacca, che nei primi anni ‘90 avevo avuto modo di conoscere di persona; anzi ero andato a trovarla in compagnia di Enzo Aglieco della presidenza della Confederazione italiana degli agricoltori (CIA) di Siracusa, nonché figlio del suo fattore, per invogliarla ad aprire i cancelli dell’azienda all’ospitalità agrituristica, ottenendo come solo risultato la soddisfazione di condividere con lei una ricca colazione di lavoro in azienda e di fumare insieme l’Antico Toscano di una confezione speciale che avevo acquistato al Free Shop dell’aeroporto internazionale di Fiumicino. Ricordando tale circostanza, mi procurai i recapiti telefonici di Aglieco e li diedi a Santì. Tempo perso: Enzo cascò dalle nuvole. Ma le terre della marchesa sfociavano in una deliziosa caletta che forse era la Spiaggia del gelsomineto.
Rimane il fatto che negli anni ’30 del secolo scorso i gelsomineti erano sorti anche nella zona ionica della provincia di Reggio Calabria e, in alcune plaghe della Sicilia sud orientale e producevano tutte per l’industria profumiera francese. A pensarci bene, ciò sembra incredibile, posto che il regime fascista aveva imboccato la via scellerata dell’autarchia. Ma il colpo di grazia al nocciolo duro delle mie convinzioni arrivò dopo che lessi questo brano dello scritto della Tomarchio: «Successivamente, verso il 1948, la produzione venne spostata a Ispica dopo il matrimonio, avvenuto il 30 settembre del 1931, tra Corrado Lutri e Concettina Modica, figlia di Pietro Modica e di Angela Favi. Concetta portò in dote i terreni situati in Contrada Nardella ad Ispica». Almeno questo avrei dovuto saperlo, mi dissi.
Ero stato per quasi quattro anni (1968-1971) segretario della Camera del lavoro di Ragusa, lavorando a contatto di gomito con alcuni ispicesi che non potevano essere all’oscuro dei fatti, da Tino Canto, ex campiere negli orti della Marza, socialista e mio collega alla CGIL, a Salvatore Fidelio, segretario dell’UIL provinciale, al professore Sesto Belisario, segretario della sezione del PSIUP (il mio partito) e futuro cantore della Cava d’Ispica, al sindaco Turi Stornello, al segretario della locale Camera Saro Lucifora, che avevo accompagnato più volte all’Assessorato regionale all’Agricoltura. Nel 1988 avevo dato alle stampe il libro Il blasone perduto. Gloria e declino della città di Modica (1392-1970), senza scrivere un solo rigo sulle gelsominaie di Ispica, assieme alle quali avevano lavorato per circa venti anni interi nuclei familiari di Modica.
Il fenomeno era sfuggito persino a Meno Viola, segretario della Federbraccianti di Modica e angelo custode degli uomini e delle donne, che per non morire di fame nei tuguri e nelle grotte in cui abitavano, d’inverno andavano a guadagnarsi il pane negli orti di Cassibile e negli agrumeti di Francofonte e, in piena estate, si trasferivano con la famiglia nelle province occidentali per raccogliere le spighe cadute tra le stoppie. Mi sono, perciò, messo a cercare sul web tracce del profumo di gelsomino ispicese, che – chissà perché? – immaginavo di poter trovare anche dalla Cava d’Ispica, la fertilissima valle attraversata dal torrente ad andamento carsico, che nella parte superiore (in territorio di Modica) si chiama Ispica e in quella inferire Busaitone, in riva al quale fino al giorno del terremoto del 1693 vivevano tutti gli abitanti di Spaccaforno (ora Ispica). Chiunque abbia visitato l’amena valle ne è rimasto incantato. Il pittore e scrittore francese Jean Houel, che dimorò in Sicilia dal 1776 al 1780, scrisse: «Nel luogo che gli abitanti di queste umili case chiamano la “drogheria”, perché le grandi nicchie quadrate scavate nelle pareti laterali delle camere lo fanno rassomigliare ad un negozio di speziale, ci sono delle specie di panche, o meglio delle vasche esagonali sul pavimento e non si sa quale scopo avessero questi strani manufatti […]. Ritornando a Spaccaforno, ho osservato che le acque che scorrono ai piedi dello sperone roccioso e che seguono serpeggiando i sentieri della Cava, scompaiono improvvisamente, per riapparire poi, molto più lontano sotto forma di laghetti suggestivi dai quali precipitano in mille bellissime e pittoresche cascate». Ma nemmeno lui trovò gelsomino.
La navigazione sul web (estesa anche il sito on line Ispica Città del Profumo) mi ha fatto, invece, imbattere in un’intervista rilasciata nel 2016 al regista e attore Pietro Pelligra dall’allora settantacinquenne Martino Vella, che da piccolo aveva lavorato con le gelsominaie di Ispica. «Erano gli anni ‘50 – racconta –, e io me lo ricordo che nella contrada Nardella c’erano i campi di gelsomino. Parevano dei prati grandi con tanti fiocchi di neve. I terreni erano del barone Modica, ma appartenevano a suo cognato, che aveva sposato la sorella. Veniva da Avola, lo chiamavano Lutri, il dottor Lutri. E ci pensava lui al gelsomino. Noi ragazzi, però, non l’abbiamo mai visto. Ai terreni ci badavano gli uomini di fiducia suoi. Ed io, ragazzino, per avere qualche soldo in tasca e per non stare senza che fare, ci sono andato alla Nardella a raccogliere gelsomini. C’è voluta la raccomandazione per lavorarci. Fu un mio zio o un amico di mio padre a parlare col soprastante. Per tutta l’estate si stava in campagna. Nonni, figli e nipoti si lasciava casa e ci si trasferiva là. Venivano anche dai paesi vicini a Nardella. E perciò si conosceva gente nuova ogni anno. Le famiglie stavano in un caseggiato accanto ai gelsomini. Si dormiva insieme, sul pavimento, sopra le coperte. Era bello perché la sera mangiavamo tutti assieme e poi si ballava, si cantava. E alcuni ragazzi facevano anche il teatrino».
Assodato, dunque, che la coltura del gelsomino attecchì pure ad Ispica, ancorché in misura ridotta rispetto a Milazzo e alla Calabria, è il caso di accennare anche qui alle cause che ne favorirono la genesi. Già da quanto abbiamo scritto è di tutta evidenza che nel territorio ispicese, dopo i molti interventi di bonifica idraulica, avviati negli anni ‘30, non doveva esserci penuria di superfici agricole irrigue. Né mancavano, nel paese e nei centri circostanti, le donne abituate al duro lavoro dei campi e al super-sfruttamento. A parte la vendemmia e le operazioni di raccolta delle mandorle, delle olive e dei prodotti dell’orto e, soprattutto, delle carrube (che nei secoli precedenti avevano fatto insignire di blasone non pochi perdigiorno chiamati localmente “cavalieri”), alcuni nuclei familiari di Ispica partecipavano fin dal primo dopoguerra, assieme ai modicani, al nomadismo stagionale negli ex feudi della Sicilia del grano, per raccogliere le spighe sfuggite alle falci dei mietitori. D’altronde, la vecchia Spaccaforno aveva fatto parte di quel regno nel regno, che era Contea di Modica e, non a caso – dopo la costituzione della provincia di Ragusa – fu aggregata al Circondario di Modica.
Sui disagi affrontati dagli spigolatori migranti chi scrive il 1° aprile 1986 ha avuto la fortuna d’intervistare una trentina di soci del Circolo Di Vittorio di Modica Alta, che in età infantile erano andati a spigolare con i familiari nei latifondi della Sicilia occidentale. Vorrebbe perciò citare un paio di casi. Giovanni Vindigni (classe 1929) raccontò che trovandosi bambino a spigolare in contrada Ciampanedda nei pressi di Resuttano fu cacciato insieme ai familiari perché l’indomani dovevano pascolarvi i porci. Ma. tranne in qualche caso, gli spigolatori avevano trovato il modo di farsi accettare: gli uomini collaboravano con piccolo compenso in natura con i padroni del fondo nelle operazioni di trebbiatura; le donne e i bambini cominciavano a spigolare dopo il trasporto dei covoni nell’aia. Anche le donne incinte e le mamme che allattavano spigolavano. E si dava pure il caso che qualcuna partorisse sotto la tenda. Senza contare le mamme che, nel dormiveglia della notte, credevano di allattare la loro creature e si trovavano un serpe attaccato al seno.
Sono convinto che i superstiti delle poche famiglie ispicesi che andavano a spigolare assieme ai modicani avrebbero tante altre storie amare da raccontare. In ogni caso nel 1949, quando si cominciò a raccogliere gelsomini a Nardella, lavorare nottetempo per ben cinque mesi di fila tra i candidi fiori profumati e dormire sotto un tetto in muratura, con la certezza di poter guadagnare un po’ di denaro e di riempirsi ogni giorno lo stomaco di una ricca minestra di pasta con i legumi e verdura era un lusso che non tutti i nati da donna spaccafornara potevano permettersi. Era un «pane lungo», portato a pochi chilometri da casa dal dottor Lutri. Nardella rappresentava in qualche modo la FIAT di Spaccafurnu, e nessuna popolana assennata, se trovava la raccomandazione giusta, si lasciava sfuggire l’occasione di andarci a lavorare, a costo di essere giudicata una poco di buono, alla strega delle sventurate che si trasferivano a Modica e a Ragusa, per fare le cameriere a servizio delle famiglie degli altezzosi «cavalieri», che prima d’aprire la bocca, mostravano il blasone. Il che spiega, anche se solo in parte, perché le gelsominaie di Ispica non scioperarono mai.
L’economia morale dei poveri e il protagonismo femminile
È risaputo che nell’era preindustriale, i moti delle plebi affamate erano spesso preceduti da proteste di donne e bambini. Ma è pur vero che, se già i primordi della storia del movimento contadino organizzato furono scanditi anche da lotte femminili, l’irruzione delle donne nell’agone sociale e politico delle campagne, in quella fase come nel secondo dopoguerra, fu sempre episodica e soprattutto provocata dalla violazione di almeno una norma di etica sociale non scritta, e tuttavia ritenuta cogente, condivisa e radicata – per dirla con le parole dello storico inglese Edward Palmer Thompson (1924-1993) – «in una consolidata visione tradizionale degli obblighi e delle norme sociali, delle corrette funzioni economiche delle rispettive parti all’interno della comunità, che nel loro insieme costituivano l’economia morale del povero». È mia opinione che le considerazioni di Thompson, esposte per la prima volta in un articolo, L’economia morale, pubblicato nel 1971 sulla rivista Past and Present, possono contribuire a capire meglio la vicenda delle gelsominaie.
La storia sociale siciliana è piena di episodi utili alla dimostrazione del mio assunto. I più noti, risalenti all’epoca dei Fasci dei lavoratori, avvennero nella Sicilia occidentale. «A Milocca,, a Sutera, ad Acquaviva, a Campofranco, zona esclusivamente agricola della provincia di Caltanissetta – riferisce Napoleone Colajanni –, i contadini si erano riuniti in Fasci. Le autorità e i maggiorenti fecero di tutto per farli sciogliere: più volte ne violarono il domicilio, ne minacciarono i membri, ne arrestarono i capi coi pretesti più futili; li processarono e nei processi furon assolti o per insufficienza di prova o per mancanza di prove. I contadini tennero duro, specialmente a Milocca dove colla loro unione costrinsero quasi tutti i proprietari a concedere più equi patti agrari». I padroni trovarono un nuovo pretesto per fare arrestare il presidente del Fascio di Milocca, Giuseppe Maria Cannella, per i compaesani «zi Peppi lu prisidenti», e l’intero consiglio direttivo, accusandoli di reati immaginari. «Le donne di quell’ameno villaggio – aggiunge Colajanni – le quali non sono meno gagliarde degli uomini, indignate da quella che a loro sembrava un infame prepotenza, insorgono in numero di 500, assaltano la caserma dei carabinieri, ne sfondano le porte e liberano i cinque arrestati […]. Non un solo uomo si unì alle donne. E di fronte a questo esercito infuriato, ma inerme, i carabinieri non ebbero cuore di far fuoco e perciò non si deplorarono morti e feriti. Delle intensioni delle donne, che non si seppero rassegnare a vedere ingiustamente arrestati i mariti e i figli se ne ha prova in quella circostanza: ebbre di gioia per la liberazione dei prigionieri, s’impadronirono delle armi dei carabinieri, ma non per adoperarle, ma per condurle in trionfo; ed in trionfo condussero sulle braccia, baciandolo in volto, un carabiniere che si era mostrato più umano e pietoso verso di loro».
A Villafrati, il paese dove sono nato e che tuttora fa da cornice alle mie evasioni oniriche, l’intervento delle donne fu risolutivo del duro e lungo confronto dei contadini del Fascio con il blocco agrario-mafioso, rappresentato dal sindaco Pietro Santomauro amministratore generale, gabelloto (affittuario) e socio del conte di San Marco, principe di Mirto (proprietario della maggior parte delle terre del territorio comunale e percettore dei censi su tutte le case dell’abitato), dal fratello Antonino (capomafia locale e anello di congiunzione di una catena genetica di capimafia, che dall’unità d’Italia si allunga fino ai nostri giorni) e da altri due assessori mafiosi. La vertenza mezzadrile (per l’applicazione dei cosiddetti Patti di Corleone) cominciò il 6 ottobre 1893. Il 13 mattina «più di duecento contadini accompagnati dalle mogli e dei figli», guidati dal presidente Achille Calandra, studente in medicina di 19 anni, si misero in marcia verso l’ex feudo Stallone, per far smettere di lavorare i braccianti reclutati nei paesi vicini. Altri villici, «ciascuno dei quali con un fazzoletto rosso legato alla punta di una canna», guidati dai soci più influenti del Fascio si recarono nell’ex feudo Chiarastella affittato al sindaco Santomauro e cominciarono a gridare: Viva il Fascio, abbasso i prepotenti. In risposta, i campieri spararono più volte in aria «tanto per ispaventare quella ciurma ed avvisare la forza pubblica». La notte furono arrestati il presedente e i soci più influenti del Fascio.
Ma, nonostante la decapitazione del movimento, ancora il 24 ottobre 1893 l’astensione dal lavoro dei contadini di Villafrati continuava compatta. I dirigenti arrestati erano ormai in libertà provvisoria e i mezzadri avevano respinto una ipotesi d’accordo. I campieri erano all’opera per far fallire lo sciopero. E con la scusa di raccogliere verdure spontanee, le donne del Fascio giravano le campagne armate di bastoni. Il 28 ottobre in un campo della contrada Grada trovarono un tal Innocenzo Pollaccia che zappava; e «con violenza e minacce lo costrinsero a smettere di lavorare e togliendogli persino la zappa». Venuta la notte, furono arrestate due donne, altre quattro si erano rese irreperibili. La zappa sequestrata al crumiro non fu più trovata. Lo sciopero si allargò ai comuni circostanti, dove i fasci erano stati costituiti dai socialisti di Villafrati. A Ciminna furono arrestate tre persone; a Baucina il picchettaggio delle principali uscite del paese si concluse con cinque arresti.
A Villafrati, alle sei del mattino di lunedì 30 ottobre, i carabinieri fermarono e tradussero con la forza in caserma la giovanissima Caterina Costanza di Cefalà Diana, che «si atteggiava a presidentessa», alla testa di circa 20 suoi compaesani. Pochi minuti dopo, davanti alla stazione dell’Arma si erano radunate circa 300 persone, che chiedevano a gran voce la scarcerazione della ragazza e delle due donne arrestate il giorno avanti. Nel momento di maggior tensione arrivò un commissario di Pubblica Sicurezza, e la situazione si sbloccò. Caterina Costanza fu liberata subito, le altre rientrarono in paese nel pomeriggio. L’indomani, col primo treno proveniente da Corleone piombò a Villafrati Bernardino Verro il capo dei Fasci contadini e organizzò una grande manifestazione intercomunale al Trivio Balatelle (tra Baucina e Ciminna) cui parteciparono più di 3.000 persone, moltissime delle quali donne. La sera stessa, memorabile 31 ottobre 1893, su invito del prefetto, a Villafrati il «Palazzo di Città», cioè il Municipio, ospitò una riunione per costituire «un arbitrato come soluzione dello sciopero durato parecchi mesi». Alla trattativa parteciparono il sindaco, gli assessori, i proprietari e i grossi gabelloti, ma a presiedere la riunione fu Verro. Della nutrita delegazione dei contadini non fece, però, parte nessuna donna. E non ci fu una sola persona che s’indignò. Tornate nell’ombra, come erano state per secoli, dopo più di cinquant’anni, nell’ottobre 1948 e nel gennaio 1956 le villafratesi tornarono a scrivere altre due belle pagine di protagonismo di genere, e sempre contro la violazione di regole condivise di economia morale dei poveri.
In Sicilia orientale nel secondo dopoguerra si registrano pure episodi di protagonismo femminile, ma mai drammatici. Uno di questi avvenne a Modica, dove nel 1953 la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla miseria aveva accertato le carenze alimentari delle famiglie disoccupate, che si nutrivano di fave e, quando andava meglio, di pasta. Ma c’era anche di peggio: «Una signora cita il caso di un’orfanella di 10 anni che non aveva mai mangiato la carne. Questa vittizzazione insufficiente incide sull’infanzia: i medici affermano che non sono infrequenti i casi di sviluppo ritardato: ragazzi di 15 anni ne dimostrano 10». La storia ci insegna, però, che gli affamati insorgono solo quando qualcuno si mette sotto i piedi le regole che consentono ai poveri di sopravvivere. Non sarà perciò motivo si scandalo se uno dei pochi casi di lotta al femminile di cui, prima dell’autunno caldo, poteva menar vanto d’aver suscitato la Camera del lavoro di Modica era uno sciopero delle «cattive», le vedove. che – vestite a lutto come Maria Addolorata – andarono a protestare all’Inps per sollecitare la puntuale erogazione degli assegni di reversibilità.
Tindaro La Rosa e il primo sciopero vittorioso fra i gelsomini
Al lume delle considerazioni sin qui svolte, spero che sia più facile apprezzare la vera portata liberatoria delle lotte delle gelsominaie. Aggiungo subito che la storia della benemerita categoria è strettamente legata alla vicenda politica e umana di Tindaro La Rosa. Senza i suoi articoli (non sempre firmati) sulle colonne del giornate della Federazione regionale del PCI la Voce della Sicilia, il ricordo delle raccoglitrici del candido fiore non avrebbe avuto, forse, maggior fortuna di quello dei coltivatori di liquirizia, o di sommacco, arbusto mediterraneo ad alto contento di tannino (fino al 35%), di cui si è quasi persa la memoria, anche se nel primo Ottocento aveva surclassato altre specie tanniche per la crescente domanda di prodotto siciliano, in foglie o macinato, da parte delle industrie inglesi, francesi, tedesche, americane, austriache e olandesi, che arrivarono ad assorbirne l’80%. La Rosa non è stato solo il cantore delle lotte delle gelsominaie, ma anche l’intelligente e instancabile costruttore.
Milazzese attaccato alla sua città come una patella allo scoglio, Tindaro era un promettente studente in Legge di 19 anni, nel 1943, quando aderì al Partito comunista. E questo non è dettaglio di scarso rilievo. Quell’anno nella nostra isola e nel mondo successero tante cose, su cui c’è una cospicua letteratura. Sappiamo quindi quanto difficile fosse iscriversi al partito di Gramsci e Togliatti anche dopo lo sbarco in Sicilia degli anglo-americani (10 luglio). Difatti la costituzione, il 17 luglio, del governo militare (AMGOT), lungi dal segnare l’inizio della libertà politica, sancì il temporaneo divieto di costituire strutture politiche e sindacali. Lo stato di guerra in Sicilia continuò fino al 17 agosto e, anche se i reparti dell’esercito italiano di stanza nell’Isola si erano praticamente sciolti come neve al sole, i tedeschi occupavano ancora buona parte della Sicilia orientale. Dalla fine di luglio (quando era già caduto il governo del Duce ed era in carica quello di Pietro Badoglio) tutti i loro sforzi furono finalizzati all’organizzazione di una ritirata verso lo Stretto di Messina per traghettare in Calabria il maggior numero possibile di uomini e mezzi. E pur di raggiungere questo scopo, uccidevano civili, razziavano animali e biciclette, appropriandosi di tutto ciò che potesse poi tornare loro utile in Continente. La stragrande maggioranza delle uccisioni immotivate o poco motivate (47 su 49) commesse dai tedeschi in Sicilia ebbe il suo tragico teatro nell’area etneo-peloritana.
«Ero sfollato a Kaggi – racconta Pancrazio De Pasquale – come molti di voi erano sfollati nelle campagne. E lì ho assistito direttamente ad uno di questi episodi di brutalità. Un giovane handicappato che andò a rubare una scatoletta di carne nel campo dei tedeschi, all’ingresso del paese, fu preso e ucciso dai tedeschi: preso per i piedi e ucciso sbattendogli la testa per terra». Handicap a parte, è chiaro che lo sfortunato ragazzo non sarebbe sconfinato nel campo degli invasori, se avesse avuto qualcosa di suo da mettere sotto i denti. Ma la fame la faceva da padrone anche nella Sicilia liberata. Non è quindi azzardato pensare che si stesse peggio in quella da liberare dalla presenza dei nazi-fascisti, dove erano saltate tutte le regole. In vista della ritirata nel Continente dei tedeschi, un rapporto del 13 agosto 1943 del servizio segreto statunitense di Palermo, Office of Strategic Services (OSS), precursore della Central Intelligence Agency (CIA), considera «probabile che nell’isola si verifichi una carestia nell’arco del prossimo inverno, a meno che gli alimenti non vengano importati».
Verso la fine d’agosto entrarono in vigore i listini dei prezzi fissati dall’AMGOT e si scoprì che la situazione era peggiorata. Un chilo di pane che, ufficialmente a Palermo costava 3,60 lire, si comprava al mercato nero a 35-40 lire; la pasta, che a prezzo di listino non doveva superare le 20 lire al chilo, non si trovava a meno di 50-60 lire: un litro d’olio, che doveva costare da 19 a 22 lire, al mercato nero si acquistava ad un prezzo oscillante dalle 200 alle 300 lire. A Delia per 10 o 12 ore di lavoro si guadagnavano 5 o 6 lire. Il 7 settembre 1943 la razione del pane passò da 300 grammi a 200 grammi. Ma il servizio di distribuzione a Palermo cominciò ad essere regolare soltanto all’inizio di novembre. Con il risultato, peraltro, che di lì a pochi giorni dopo la razione del pane fu ridotta a 100 grammi, per risalire a 150 dopo l’arrivo dei nuovi rifornimenti. La politica degli ammassi obbligatori dei cereali fu fallimentare: servì solo a fare arricchire non pochi fascisti imboscati e ad alimentare il contrabbando (intrallazzo) gestito dalla mafia di Caltanissetta e di Palermo, che riattivò i collegamenti prebellici con gli affaristi del Messinese e con la ndrangheta. Da luglio a dicembre in Sicilia non ci fu nessuna distribuzione di pasta, tranne l’assegnazione per il giorno di Natale, che gli abitanti della città costiere trascorsero tra le macerie dei bombardamenti. A Messina gli edifici bombardati furono stimati intorno al 94%, di cui il 30% distrutti e il 34% danneggiati gravemente. La situazione di Milazzo forse era meno disastrosa, ma pur sempre drammatica.
Pure, tra macerie e disperazione, fame e voglia di futuro, tra il 29 luglio e il 7 agosto 1943 il governo Badoglio varò vari provvedimenti mirati ad assicurare la pace sociale e le libertà prefasciste: abolizione del tribunale speciale per la difesa dello Stato, del Gran Consiglio del fascismo e della Camera dei fasci e delle corporazioni; nomina di commissari governativi antifascisti alla direzione delle confederazioni e federazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori esistenti prima del fascismo. Ma il massimo che fu disposto a concedere il governo alleato nel 1943 fu l’istituzione di una Labour Division, che (di concerto con le autorità italiane e acquisito il parere di alcuni esponenti del mondo sindacale prefascista) il 24 settembre 1943 varò un Piano del lavoro per la Sicilia. Dal 1° ottobre 1943 cominciò a sciogliere il sistema corporativo, in sostituzione del quale istituì 9 Uffici provinciali del lavoro, che facevano capo ad un ufficio regionale, diretto da Antonio Sellerio, docente all’Università di Palermo, di orientamento progressista. Della Commissione consultiva regionale furono chiamati a far parte, tra altre personalità il comunista Giuseppe Montalbano e il democristiano Pasquale Cortese. Agli Uffici provinciali del lavoro fu attribuita la competenza in materia di occupazione, disoccupazione, lavoro minorile, salari e costo della vita (i cui dati dovevano essere trasmessi periodicamente ai prefetti e alle autorità militari alleate), composizione di controversie salariali. Lo sciopero, la serrata e gli assembramenti continuavano, tuttavia, ad essere illegali.
Nonostante queste gravi limitazioni, le pur timide concessioni del governo alleato suscitarono il fiorire di varie iniziative volte a organizzare le masse nei sindacati, tra le quali spiccano quelle del comunista Umberto Fiore e dell’avvocato democristiano Giuseppe Alessi, che costituirono su basi unitarie e democratiche le Camere del lavoro, rispettivamente a Messina e a Caltanissetta. Guai, però, ai sindacalisti che volessero uscire dalla cornice moderata di meri interlocutori dell’Ufficio del lavoro.
«Vigendo il divieto di assembramento politico e di sciopero, alle minacce di arresto – osserva Maria Teresa Di Paola – gli alleati avevano ben presto fatto seguire i fatti. Chi ne aveva subite le conseguenze, ovviamente, erano stati soprattutto i dirigenti sindacali comunisti, per i quali l’aspetto politico era inscindibile da quello puramente rivendicativo dell’attività sindacale […]. In provincia di Caltanissetta venivano processati e deportati in Africa alcuni antifascisti che avevano dato vita ai sindacati e ai partiti dei lavoratori: fra di essi un gruppo di comunisti di Sommatino, appena rientrati dal confino fascista, e il giovane dirigente comunista Emanuele Macaluso che veniva processato per “attività sovversiva” e diffidato dal continuare la sua opera di organizzazione e propaganda fra i minatori delle cave [miniere] di zolfo. A Messina Umberto Fiore era stato più volte diffidato per l’attività che si svolgeva nella sede della Camera del lavoro di cui era segretario e, per sfuggire all’arresto da parte delle autorità alleate, riparava clandestinamente nella vicina Calabria».
Ma sul finire dell’anno le agitazioni aumentavano e i comunisti si domandavano fino a che punto fossero credibili «quei signori», che non erano riusciti «a dare pane al popolo, a scovare ciò che ancora rimane[va] degli otto milioni di quintali di grano che la Sicilia produce[va]». E dopo il 22 dicembre, quando – per tema che i comunisti aumentassero la loro influenza sui lavoratori – l’AMGOT fece pubblicare sul Notiziario di Messina le direttive che negavano il diritto di organizzare manifestazioni pubbliche, il numero unico di propaganda comunista, La voce dei comunisti, non esitò a lanciare il guanto di sfida: «Lavoratori! organizzatevi, costituite le vostre leghe per la difesa degli interessi della classe lavoratrice. Nei capoluoghi di provincia operai e contadini unite le vostre forze, costituite le Camere del Lavoro». Ma l’AMGOT era ormai entrato nell’ordine di idee di alleggerire la morsa dell’occupazione militare. Così, il 15 gennaio 1944 concedeva ai siciliani la libertà di stampa e di associazione. Il 18 i lavoratori dell’Isola ottenevano anche il diritto di organizzarsi in sindacato e di eleggere i propri rappresentanti. L’11 febbraio la Sicilia tornava sotto la giurisdizione del regno d’Italia, che lo stesso giorno traferiva provvisoriamente la propria capitale a Salerno.
In questo clima i comunisti di Messina costituirono anche la loro federazione provinciale. E Tindaro La Rosa fu felice di reiscriversi al Partito alla luce del sole. Nei giorni e nei mesi successivi i comunisti messinesi s’imposero all’attenzione dell’intero paese e Tindaro fece sempre la propria parte, ancorché da semplice iscritto. L’evento più importante fu il Primo Congresso dei comunisti siciliani, indetto dalla Federazione di Messina, che si svolse dal 15 al 17 aprile 1944 nella Sala dei Concerti del Teatro Vittorio Emanuele III della Città dello Stretto. Vi parteciparono 150 delegati, i dirigenti della Federazione del PSIUP di Messina, quelli della Federazione di Reggio Calabria e tre membri della direzione nazionale del PCI: Paolo Tedeschi (pseudonimo del sardo Velio Spano), il calabrese Fausto Gullo e Umberto Fiore. Tra gli ospiti, Teresa Fazio, vedova del primo deputato comunista siciliano Francesco Lo Sardo, fatto morire nelle carceri fasciste il 31 maggio 1931. «In occasione del Congresso – informa Maurizio Rizza –, con una solenne cerimonia nei locali del Supercinema, Umberto Fiore, l’avvocato antifascista senza Partito Biagio Di Paola, Fausto Gullo e Velio Spano commemorarono la figura del grande martire Francesco Lo Sardo. Alla cerimonia parteciparono la vedova dell’ex deputato di Messina, alcuni dirigenti siciliani del Partito, tra cui Cesare Sessa, una rappresentanza dei comunisti reggini e delle federazioni provinciali dell’Isola. Al termine della cerimonia una piccola delegazione si recò al cimitero per deporre una corona di fiori rossi sulla tomba dello scomparso». A compiere il mesto pellegrinaggio fu anche Tindaro La Rosa.
Motivato com’era, Tindaro non poté certo disinteressarsi dall’evoluzione del quadro politico nazionale, tanto più che una settimana dopo la conclusione del Congresso comunista di Messina entrò in carica il secondo governo del generale Pietro Badoglio (destinato a durare dal 22 aprile all’8 giugno 1944), di cui fu chiamato a far parte, in qualità di ministro dell’Agricoltura, Fausto Gullo. Ebbene, appena 10 giorni dopo il giuramento, il «compagno» Gullo firmò il decreto ministeriale del 2 maggio 1944, «Disciplina dell’ammasso del grano e dell’orzo del raccolto 1944» nei cosiddetti «granai del popolo», per assicurare il pane agli affamati delle città e delle zone dove la cerealicoltura non riusciva a nutrire la popolazione locale. Il 18 giugno Badoglio passò il testimone all’anziano socialriformista Ivanoe Bonomi, Fausto Gullo fu confermato all’Agricoltura e cercò di completare l’opera emanando altri decreti, che lo fecero passare alla storia come il «ministro dei contadini».
I più importanti portano la data del 19 ottobre 1944. Il primo (n. 279/1944) dettava norme per la concessione di terre incolte o insufficientemente coltivate ai contadini associati in cooperativa. L’altro (n. 311/1944), modificava i contratti di mezzadria impropria, colonia e compartecipazione, elevando la quota di prodotto che spettava per consuetudine (variabile da zona a zona) ai contadini al 60%. Il 25 ottobre fu emanato il decreto luogotenenziale n. 284, che semplificava le procedure per lo scioglimento degli usi civici e l’assegnazione delle terre demaniali ai contadini. I decreti Gullo dovevano avere carattere transitorio in attesa di una riforma agraria. Si chiamavano decreti Gullo, ma erano il risultato di una faticosa mediazione del PCI con gli altri alleati di governo. Non fu allora per puro caso se nel 1945, quando fu fondata la Camera del lavoro della frazione Santa Marina di Milazzo, lo studente universitario Tindaro La Rosa di 21 anni, che i milazzesi chiamavano «avvocato», fu nominato segretario della «Nuova Federterra», l’organizzazione sindacale dei contadini della CGIL, risorta nazionalmente (anche per iniziativa di Umberto Fiore) il 23 marzo 1944 a Bari, in continuità ideale con Federazione nazionale dei lavoratori della terra (Federterra), soppressa durante il fascismo.
È vero, Milazzo, città che allora aveva circa 20.000 abitanti e un’articolazione sociale molto più ricca e varia di quella dei paesi circostanti. Basti pensare allo stabilimento della Montecatini (che produceva concimi chimici) e alle attività terziarie afferenti al rapporto con le isole Eolie. Ma l’agricoltura della Piana continuava ad avere un grosso peso e la stazione ferroviaria di Santa Marina sembrava assicurarne la continuità per la spedizione dei prodotti agricoli. Tindaro si trovò subito di fronte due nodi sociali di lunga durata non risolti: i salari di fame dei braccianti d’ambo i sessi e la colonia impropria, che nel vigneto (di cui vivevano la stragrande maggioranza dei contadini) aveva fatto affermare la consuetudine di dividere il mosto nella proporzione di due terzi al proprietario e un terzo al colono. Il ricorso alla manodopera salariata avveniva di solito per le operazioni colturali di primavera e nei giorni di vendemmia. In tutte e due le stagioni a trovarsi in difficoltà erano i coloni che dovevano assumere braccianti. Per tentare di evitare la guerra fra poveri, nel 1920 il contadino Giuseppe Currò, reduce dalla grande guerra, che l’aveva visto assurgere al rango di ufficiale di complemento, mise in gioco tutto il suo carisma per convincere i braccianti e i coloni a lottare insieme contro i padroni chiedendo aumenti salariali e migliori condizioni di riparto del mosto. Ci riuscì e fondò pure una «Lega dei contadini» con un Consiglio direttivo, del quale (nel marzo 1921) lui era presidente, Angelo Sottile segretario, Giuseppe Gitto, Rocco Italiano e Pietro Ruvolo consiglieri.
Ma già nel settembre del 1920 Currò aveva organizzato la prima agitazione di coloni e braccianti con picchettaggi alle uscite della città, che però non produsse risultati migliori di uno scontro fisico con gli esponenti del nascente fascismo agrario. Il 29 marzo 1921 lo sciopero colonico fu più imponente e si avvalse del sostegno di Felice Elia della Camera del lavoro provinciale di Messina, che era venuto a Milazzo per tentare di trovare un accordo con i proprietari. Gli agrari furono irremovibili e, per iniziativa di un caporione fascista che nel settembre precedente le aveva prese di santa ragione, il 24 marzo si era inaugurata la sezione dei «Fasci di combattimento» di Milazzo, con il dichiarato scopo di farla finita con gli agitatori «bolscevichi». Lo scontro fu più duro del primo. E, anche se, come recitava un telegramma del prefetto, «circa 700 scioperanti armati bastoni, condotti dal Currò, scorrazzarono campagne facendo smettere lavori campestri anche ai contadini non iscritti alla Lega», i picchiatori neri e la complicità dell’agonizzante potere liberale ebbero la meglio sui contadini. Lo stesso Elia divenne oggetto della violenza squadrista. La lega fu sciolta.
Ma dopo 24 anni la memoria di questi fatti era viva nella popolazione rurale milazzese e non poteva essere ignorata dal giovanissimo segretario della Nuova Fedeerra di Santa Marina Tindaro La Rosa. Non a caso l’ormai maturo capopopolo Giuseppe Currò divenne, nei fatti, il consigliere più ascoltato da Tindaro e, per certi aspetti, il suo maestro. L’uno e l’altro sapevano, d’altronde, che ai decreti Gullo aveva dato la volata un articolo di Palmiro Togliatti, facendo della questione siciliana la pietra di paragone della democrazia nazionale: Il popolo siciliano ha sete di giustizia e fame di terra, pubblicato dall’Unità il 3 settembre 1944. Capivano, quindi, La Rosa, Currò e qualche altro compagno come Stefano Russo che, per essere all’altezza delle sfide della nuova società nazionale, che stava per liberarsi anche nel Continente dall’oppressione nazi-fascista, bisognava ripartire da dove nel 1921 era stata fermata con la forza bruta la marcia della Lega dei contadini, sapendo che allorquando lo scontro con i padroni si fosse fatto particolarmente duro, i coloni (che ora avevano diritto, non più a un terzo, ma al 60% del mosto e degli altri prodotti), avrebbero potuto invocare il rigore della legge dello Stato italiano, tanto più che al governo ormai non c’erano gli alti gerarchi fascisti: c’era, tra gli altri, Palmiro Togliatti (con cui si consultava tutti i giorni il presidente del Consiglio Bonomi), c’erano Fausto Gullo, il ministro dei contadini, e il compagno messinese Umberto Fiore, che il 12 dicembre 1944 era diventato sottosegretario all’Industria.
Delegato per la Sicilia della CGIL, al Convegno costitutivo della Federazione regionale comunista (Palermo, 6-8 gennaio 1945) il sottosegretario Fiore presentò una relazione sullo stato del sindacato nel corso della quale affermò: «La potenza del Partito in Sicilia è in stretta relazione con le forze della Camera del lavoro; su nove Camere della Sicilia otto sono rette da comunisti […]. L’unione sindacale deve realizzarsi […]. Dobbiamo portare altre masse alle Camere del lavoro, che hanno pochi contadini, non solo per le difficoltà dei mezzi di comunicazione, ma perché non abbiamo saputo trovare la parola d’ordine per mobilitare i contadini: non abbiamo saputo sufficientemente approfittare delle leggi Gullo […]. Se non avremo dappertutto le masse contadine, non avremo fatto nulla con la nostra azione […]. Cerchiamo di venire incontro anche ai piccoli bisogni del contadino, dal paio di scarpe al pantalone, all’applicazione delle leggi Gullo».
Certo di poter contare sull’aiuto di Umberto Fiore (che non aveva difficoltà a coinvolgere il ministro dei contadini), Tindaro si mise di buzzo buono al lavoro, che poi risultò molto più difficile del previsto. Il primo tentativo di fare applicare il decreto Gullo lo fece nel mese di giugno, su richiesta di due coloni, nelle terre del barone De Lisi di contrada Case Casazze. «La disputa – si legge in una tesi di laurea, costruita su testimonianze di persone bene informate – però finì in una bolla di sapone per l’intervento delle forze dell’ordine su sollecitazione del proprietario». Né erano più incoraggianti le notizie che arrivavano dai paesi vicini. Per portare un esempio, il 3 luglio 1945, la Voce della Sicilia rendeva noto che il sindaco di Tripi Francesco Peritore era stato destituito dalla carica «per aver limitato il fitto delle terre demaniali ai soli contadini» riuniti in cooperativa. Le teste d’uovo che avevano ispirato il provvedimento raggiunsero così il risultato di perpetuare la prassi di affidare i pascoli comunali ad allevatori rotti ad ogni compromesso con la mafia dell’abigeato, che dal Palermitano aveva esteso i tentacoli e piantato le radici profonde anche della provincia di Messina.
«Poi, in autunno – cito La Rosa –, le lotte per la ripartizione del mosto, che interessavano la quasi totalità dei contadini della Piana, e il primo impatto si ebbe in contrada Ciantro nell’azienda dell’ingegnere [e barone] Domenico Ryolo, che era allora il presidente dell’Associazione agricoltori. Fummo chiamati da un colono, Vincenzo Russo, che aveva chiesto di essere sostenuto nella ripartizione per l’applicazione del decreto Gullo. Il proprietario chiamò i carabinieri, i quali vennero con una carrozza noleggiata. Con fare intimidatorio chiesero al contadino se avesse qualcosa da dichiarare, e al suo diniego fu facile per loro intimarmi di seguirli in caserma. Lì mi portarono davanti al maresciallo Cavallaro […], che io avevo attaccato su la Voce della Sicilia, giornale del Partito comunista, chiamandolo strumento dei padroni, in occasione di un intervento intimidatorio nei confronti di un contadino», coltivatore di susine, «che percepiva l’ottava parte per cento del prodotto». Alle minacce del sottufficiale che sciorinava gli articoli del codice fascista abolitivi della libertà di sciopero, il giovane sindacalista rispose ad alta voce che quelle norme non contavano più nulla, richiamando così l’attenzione dei passanti e di più di cento contadini della Piana, che si radunarono dinanzi alla caserma dei carabinieri. La tensione aumentò e La Rosa corse il rischio di esser trattenuto in camera di sicurezza: fu liberato solo dopo che il comandante della Legione dei carabinieri di Messina si precipitò a Milazzo su richiesta di Umberto Fiore. Umberto, però, non era più sottosegretario di Stato dal 21 giugno, quando entrò in carica il governo di Ferruccio Parri. E in ogni caso gli agrari milazzesi erano sin troppo appoggiati dagli apparati pubblici deviati per rispettare il decreto Gullo o venire a patti con i contadini. Il braccio di ferro tra i coloni e i proprietari continuò fino a dicembre e fu pure segnato da un ulteriore abuso di potere dei carabinieri, che perquisirono senza autorizzazione ben dodici case coloniche nella contrada Santa Marina.
L’approssimarsi della campagna elettorale per il referendum istituzionale del 2 giugno 1946 fu inoltre scandito, soprattutto nelle province occidentali, da episodi di violenza mafiosa e banditesca che tutto lasciava pensare che fosse foraggiata dall’aristocrazia terriera sostenitrice della monarchia, per negare il diritto di cittadinanza alle organizzazioni di sinistra. In questo contesto Tindaro La Rosa (come tanti altri giovani comunisti e socialisti di tutte le regioni d’Italia, che avevano abbandonato gli studi per mettersi a servizio della causa della libertà e del riscatto del lavoro), si trovò in prima linea nella battaglia per la Repubblica, che – come sappiamo – a livello nazionale fu vinta dal fronte repubblicano, ma a Milazzo vide trionfare i monarchici. Su 10.178 votanti, la Monarchia totalizzò 8.127 voti, la Repubblica appena 2.032. Né si registrarono risultati migliori nel vicino capoluogo di provincia. Se su ogni 100 voti espressi dai milazzesi alla Repubblica ne furono attribuiti appena 20, i messinesi gliene diedero meno di 15. A Milazzo, con i suoi miseri 489 voti, il PCI dovette accontentarsi del 5,5%; a Messina, dove ne prese 3.461, la percentuale scese al 3,97. All’origine della pesante sconfitta c’era il concorso di diverse cause. Su tutte, però, spiccava la scelta del re Umberto II, il quale – prevedendo la sconfitta nazionale e la vittoria in Sicilia – voleva arroccarsi nell’Isola per preparare la riconquista dell’Italia. E non si era fatto scrupolo d’investire ingenti somme e stringere un patto scellerato non solo con gli agrari reazionari, ma con quanto di peggio sopravvivesse del fascismo, scegliendo il Messinese come una delle sue più solide roccaforti.
Scongiurato il pericolo del colpo di stato monarchico, Tindaro tornò a impegnarsi con tutto se stesso sui problemi del sindacato tenendosi in contatto con Umberto Fiore (che il 2 giugno, nonostante la sconfitta subita dal Partito era stato eletto deputato all’Assemblea costituente) e con l’onorevole repubblicano libertario di Barcellona Pozzo di Gotto, Nino Pino Balotta (1909-1987), veterinario «dotato di forza erculea» d’estrazione aristocratico-borghese, docente universitario, poeta ed ex corriere antifascista in Francia, processato e condannato più volte dai tribunali del regime. Su richiesta di Tindaro La Rosa, Nino Pino si erse più di una volta a paladino del riscatto del lavoro bracciantile e colonico anche nella Piana di Milazzo. Ma ancora nell’autunno del 1946 gli agrari milazzesi si rifiutavano di dividere i prodotti ai sensi del decreto Gullo. Milazzo fu teatro di una lotta dura che interessò anche i comuni di Torregrotta e San filippo del Mela. Fallì ogni tentativo di conciliazione esperito dal prefetto, nonostante la delegazione sindacale fosse guidata da Umberto Fiore.
«Constatato il mancato accordo – racconta La Rosa – si dichiarò lo sciopero ad oltranza, mentre i proprietari si autotassarono per sostenere la vertenza contro i contadini», pagando la mafia, capeggiata localmente «da un uomo intelligente ma dai trascorsi poco raccomandabili, Giordano Bruno, che, almeno così mi disse poi, aveva ricevuto l’ordine di sequestrarmi, portarmi presso un torrente ed ammazzarmi […]. Si doveva ripartire il mosto in contrada Due Bagli […]. una squadraccia di Gala scende alla stazione di Santa Marina, arriva a Due Bagli, dove, presso il nostro compagno Currò, era il luogo della nostra riunione. I delinquenti tirano fuori i coltelli, qualcuno la pistola; i contadini si consigliano col Currò, il quale dice loro di aprire la finestra e di pulire i fucili da caccia, in modo che tutti vedano. Alla vista dei fucili i mafiosi si ritirano nella proprietà di chi li aveva chiamati, banchettano con pescestocco e vino, in attesa di uno scontro che sembrava inevitabile e sanguinoso al momento della ripartizione del prodotto. La Questura ebbe sentore di quel che stava per succedere e dalla trattoria Garibaldi partirono alcuni poliziotti a sirene spiegate, al comando del commissario Scuderi. Avvertiti dalle sirene, i delinquenti buttano le armi e scappano per i campi, vengono inseguiti e gli ultimi sono catturati a Barone, nei ruderi dell’ex distilleria Pirandello, una ventina di questi vengono messi nelle celle di sicurezza dai carabinieri. Si saprà poi che a pagarli era stato una specie di cassiere degli agrari, il fratello del conte Ottaviano».
All’inizio dell’estate precedente (quando Tindaro era stato già cooptato nel Comitato federale del PCI) nessuno sapeva, però, dei propositi sanguinari di lor signori. Anzi, è probabile che a questa determinazione i proprietari terrieri della Piana fossero arrivati dopo aver ricevuto un grosso smacco da La Rosa, che forse avevano sottovalutato considerandolo un sindacalista saputello ma innocuo, anche se dimentico della regola aurea che i panni sporchi si lavano in famiglia, dal momento che denigrava i signori milazzesi e persino i tutori dell’ordine sul giornale dei comunisti. Altrimenti non gli avrebbero permesso di fare l’avvocato degli zappatori e di girare senza posa, come una farfalla attorno al lume, tra le case rurali della Piana per parlare con i coloni, i braccianti e le loro donne e iniziarli alla ribellione verso chi dava loro pane facendo lavorare pure i minorenni che, non andando a scuola, avrebbero potuto solo cacciare grilli e lucertole o pescare rane negli stagni. Fatto sta che, in due mesi di attività frenetica, rubando le migliori ore al sonno, nella terza decade d’agosto del 1946 Tindaro La Rosa riuscì a far scioperare le gelsominaie, che per la prima volta nella storia non si lasciarono intimorire dai caporali né ricattare di non essere più assunte.
L’agitazione durò 9 giorni (nel corso dei quali affermò straordinarie doti di capopopolo Grazia Saporita detta la Bersagliera). Si concluse il 29 agosto e il 30 la Voce della Sicilia annunciò la conclusione dello «sciopero vittorioso fra i gelsomini di Milazzo», diretto da Tindaro La Rosa, con un accordo in prefettura, che aumentava il salario delle lavoratrici a cottimo da 25 lire per ogni chilogrammo di petali a 55 lire. «Certo – commentò il giornale comunista – sarà stata una grande sorpresa per i signori Triolo, Bonaccorso, D’Amico e Sottile di Milazzo, e specie per il signor Gemelli il quale a proposito di questo sciopero aveva dichiarato che preferiva dare 200 mila lire di beneficenza alle raccoglitrici piuttosto che un aumento sul cottimo». L’accordo fu un fatto clamoroso, destinato a fare da apripista ad altre vittorie sindacale. «A piedi – ricorderà Tindaro La Rosa in un manoscritto pubblicato nel 2013 a cura dei suoi figli Santì e Rosa Elisa – a partire da mezzanotte e fino al mattino, mi toccava girare per tutte le aziende, fino a che, col primo sciopero vittorioso, le gelsominaie mi regalarono la prima bicicletta, una Dei, costata all’epoca 250 lire […]. Queste donne lavoravano scalze ed erano soggette all’anchilostomiasi; alcune di loro spesso svenivano».
Agli occhi delle generose lavoratrici, il giovane sindacalista, che – sfidando l’ira dei padroni e dei loro lacchè – le portò alla vittoria, dovette sembrare l’Angelo del pane, messaggero della Divina Provvidenza. Quella prima vittoria fu la pedana di lancio del prestigio sindacale e politico di Tindaro La Rosa, il cui operato non poteva passare inosservato al Primo Congresso dei lavoratori della terra che si aprì a Bologna il 17 ottobre 1946. In quell’occasione venne deliberata la costituzione di tre raggruppamenti per permettere a ciascuna categoria di avere una propria struttura. La confederazione nacque come organismo unitario e direttivo di tutti i sindacati e delle federazioni agricole aderenti, raggruppate in: Federazione nazionale coltivatori diretti (distinta dalla Bonomiana), quella dei coloni e mezzadri (Federmezzadri) e quella dei braccianti e salariati agricoli (Federbraccianti). Di tutti e tre i raggruppamenti, sorti in qualche misura anche a Milazzo, fu eletto segretario Tindaro, Esattamente un mese dopo, il 17 novembre, a soli 22 anni, il motivato sindacalista fu eletto consigliere comunale di Milazzo. In seguito assurse anche al ruolo di segretario della Camera del lavoro della città e si guadagnò pure le credenziali per essere proposto più volta incarichi provinciali. Ma lui rifiutò sempre.
Eliana e le altre
Chiusa la vertenza delle gelsominaie, Tindaro prese a destreggiarsi tra tanti altri impegni, compreso quello di mantenere i rapporti con queste donne, in attesa di organizzare altre lotte tese a far progredire ulteriormente le loro condizioni di vita e di lavoro. Non poteva, d’altro canto, fare a meno di occuparsi di volta in volta delle vertenze individuali, delle pratiche delle vedove di guerra, dei problemi spiccioli dei coloni, delle retribuzioni dei braccianti. Attento all’evoluzione della legislazione sociale, salutò quindi con vera gioia il decreto legislativo del capo provvisorio dello Stato (16 settembre 1947, n. 929) sull’imponibile di manodopera, che conferiva ai prefetti la facoltà d’imporre «l’obbligo per i conduttori a qualsiasi titolo di aziende agrarie o boschive di assumere la mano d’opera da adibirsi nell’annata agricola o durante le singole stagioni di essa alla coltivazione, alla manutenzione ordinaria o straordinaria dei fondi, delle vie di accesso e delle piantagioni nonché all’allevamento di bestiame». Ora, per trovare applicazione, la legge non chiamava solo in causa la disponibilità del prefetto, ma richiedeva anche la costituzione di ben tre commissioni (una centrale, una provinciale e una comunale), di cui dovevano far parte anche i rappresentanti dei proprietari.
Campa cavallo, si saranno detti La Rosa e i compagni di Milazzo e di Barcellona appoggiati dall’onorevole Nino Pino. Si diedero subito un programma di scioperi a rovescio, a cominciare dalle terre dei dirigenti dell’Associazione provinciale degli agricoltori, per costringerli a prendere atto che le loro aziende avevano bisogno di investimenti strutturali e sollecitare implicitamente la costituzione a tutti i livelli delle Commissioni per l’imponibile di manodopera. «Lo sciopero a rovescio – racconterà molti anni dopo Vittorio Foa, quando in Italia non vi ricorreva più nessuno – era esattamente il rovescio dello sciopero. Si ha sciopero quando i lavoratori, per protestare o per rivendicare, si riappropriano della forza di lavoro, del tempo di lavoro che sono tenuti a prestare; si ha sciopero a rovescio quando i lavoratori, ancora per protestare o per rivendicare, prestano il lavoro senza esservi impegnati, senza esserne retribuiti». Del primo sciopero a rovescio, già nell’autunno del ’47, fu teatro la tenuta nella Piana del barone Ryolo, dove convennero, alla testa dei dimostranti di Milazzo e di Barcellona, rispettivamente Tindaro La Rosa e Nino Pino Balotta.
«Sul feudo [Pino] si trovò davanti un vero e proprio esercito di mafiosi schierati contro di lui e contro i braccianti – si legge in un articolo del 2 maggio 1960, riportato dal suo biografo Giuseppe Alibrandi –. Quattro persone si avventurarono sul deputato il quale, divelto a velocità zatopekiana un palo che fungeva da sostegno ad una vite rachitica e proletaria, somministrò loro le cure del sonno. Ogni colpo un “cavalier” per terra. In difesa dei compagni accorse un carrettiere che, volendo emulare le gesta dei film western, si lanciò addosso all’on. Pino dall’alto del carro. Per sua fortuna, riuscì appena in tempo ad invertire la rotta e la clava s’abbatté sulla clavicola dell’innocente cavallo che, illanguiditisi gli occhi, si afflosciò al suolo». Da altre fonti sappiamo che il barone Ryolo a un dato momento estrasse la pistola, e la circostanza fu poi confermata da una testimonianza resa da Tindaro La Rosa alle autorità inquirenti. Ma non ci furono morti. Sappiamo poi, da Alibrandi, che il 23 marzo 1948 il segretario della Confederterra provinciale di Messina Andrea Saccà scrisse in tono scherzoso a Nino Pino, che il PCI aveva appena candidato al Parlamento: «Quando avremo vinto […], tu farai un’interrogazione all’On. Ministro per sapere quali misure intende prendere per migliorare il vitto ai carcerati e per far ricrescere le dita alla mano sinistra di Riolo [sic]». Gliele aveva fatto saltare Pino?
L’onorevole in quel momento era detenuto nel carcere della Carrubbara, a Messina, ma non per lo sciopero a rovescio, bensì a causa di un’agitazione successiva (scoppiata a Barcellona il 2 gennaio 1948 «per la mancata assunzione al lavoro di operai panettieri, per la mancata corresponsione dell’indennità spettante ai netturbini e per il mancato pagamento del sussidio promesso ai disoccupati iscritti al locale corso d’innesto e viticoltura»), che degenerò presto nell’assalto ai Circoli dei Civili perché – come recita la sentenza della Corte d’Assise di Messina a carico del forzuto barcellonese – «i loro componenti erano ritenuti i nobili del paese (così li chiamava il dottor Pino) e in gran parte erano agrari, che pareva si opponessero all’applicazione della nuova legge sulla divisione dei prodotti agrari e alla soluzione pacifica dell’imponibile di manodopera». Nino Pino corse in loro aiuto e si trovò davanti un tenente dei carabinieri con la pistola spianata. Cercò di toglierla e, non solo si beccò una ferita alla mano destra, ma venne pure arrestato e tradotto ancora sanguinante in carcere, a Messina. La risposta dei lavoratori non si fece aspettare. Ma fu altrettanto lesta la polizia di Scelba. La sera stessa «furono fermati quattrocento cittadini, trattenuti 53 e arrestati 32».
Del caso Pino si occuparono in molti, dal socialista Fernando Santi della segreteria nazionale CGIL a Umberto Terracini, agli anarchici sparsi per l’Italia, ai compagni libertari d’America. Si creò, anzi, una gara tra comunisti e anarchici, che si contendevano l’onore e il privilegio di liberare l’illustre detenuto. L’8 gennaio, alla riunione che costituì il Fronte democratico popolare messinese, in vista delle elezioni politiche del 18 aprile 1948, Nino Pino fu acclamato presidente onorario. Il passo successivo fu la candidatura a deputato nella lista del Fronte, caldeggiata dalla Confederterra e da diverse Camere del lavoro, a cominciare da quella di Barcellona (diretta da Giorgio Pettini) e da quella di Milazzo. Durante la campagna Tindaro fu in prima linea, «sempre più veloce (un bel giorno diventerà pazzo)», scrisse Andrea Saccà a Nino Pino. A fare il resto furono gli elettori che elessero deputato il generoso libertario di Barcellona, che aderì come indipendente al gruppo comunista. Fiore fu, invece, eletto senatore nel collegio di Siracusa. Tindaro poteva dirsi soddisfatto, visto che, in netta controtendenza con i risultati nazionali, a Milazzo il Fronte democratico popolare prese 1.517 voti, 426 in più della somma dei consensi ottenuti nel 1946 dai comunisti e dai socialisti (489 + 602).
L’attività sindacale dopo il 18 aprile nella provincia di Messina riprese con maggior vigore e, ciò che più conta, le lotte furono unitarie come mai prima, grazie anche al socialista romano Raniero Panzieri, il quale, ottenuto proprio nel 1948 l’incarico di docente di filosofia del diritto all’Università di Messina, guidò le lotte per la terra dei braccianti e dei contadini dei Nebrodi, sposando nel contempo la causa dei partigiani della pace. Nel 1951 Panzieri lasciò l’insegnamento per trasferirsi con la famiglia a Palermo, dove gli fu affidato il compito di costruire il PSI in Sicilia, prima come ispettore e poi come segretario regionale. In questo clima di fervore unitario, come raccontava Tindaro La Rosa, le gelsominaie furono «protagoniste di altre lotte nel 1950, per l’introduzione della bilancia automatica (tara fissa, per il riconoscimento della commissione d’azienda, per la dotazione di stivali e grembiuli, per la modifica di lavoro, per l’esclusione dei bambini dal lavoro di raccolta […]. Scioperi e agitazioni che ebbero vastissima risonanza oltre la nostra provincia, addirittura oltre l’Italia. Arrivarono anche giornali stranieri, per esempio dall’Olanda. Ricordo anche un famoso giornalista dell’Unità, Taddei. Le gelsominaie erano donne combattive, che scioperarono anche in appoggio di altre categorie, come quella dei coloni. Alcune di loro conobbero la camera di sicurezza. Quando scendevano in sciopero, la presenza della forza pubblica era imponente».
L’8 marzo 1952 la sezione comunista di Milazzo organizzò la prima festa della donna, di cui furono indiscusse protagoniste, per la loro vivacità e la massiccia partecipazione, le gelsominaie della Piana. Ma i segni del risveglio dei ceti subalterni nel 1952 si riscontrarono in ogni angolo dell’Isola, grazie soprattutto alle epiche lotte contadine per l’applicazione della legge regionale di riforma agraria n. 102 del 27 dicembre 1950. Uno dei più autorevoli dirigenti del movimento, il socialista Michele Russo, braccio destro di Panzieri nella CGIL e all’Assemblea Regionale siciliana, che – tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno del 1952 – era andato a sfidare più volte, alla testa di centinaia di lavoratori, gli agrari e i loro campieri negli ex feudi dell’Ennese, nel pomeriggio del 6 novembre dello stesso anno, trovò le parole giuste per mettere a tacere anche l’assessore regionale all’Agricoltura Gioacchino Germanà. «Le occupazioni delle terre da parte dei contadini – tuonò in un intervento in Assemblea – ci danno la garanzia che la riforma agraria è in buone mani, è nelle mani della forza risolutiva ed attiva; di quella forza che ha determinato praticamente la promulgazione della legge di riforma agraria e adesso ne determina, attraverso i suoi interventi, l’applicazione».
Maggiore era l’attenzione dei comunisti su questi temi e sulle competizioni elettorali, che costituivano il banco di prova delle alleanze politiche e sociali. Non sorprenderà allora se, in vista delle elezioni comunali del 25 maggio 1952, la Direzione del PCI di concerto con la Federazione di Siena e la Segreteria regionale della CGIL, inviò a Messina la giovane Eliana Giorli di Poggibonsi, reduce dalla scuola di partito, che i dirigenti provinciali destinarono a Milazzo, dove il PCI candidava per la seconda volta Tindaro La Rosa. Chi altra, d’altronde, poteva dargli meglio una mano d’aiuto, se non lei, che aveva fatto la staffetta partigiana, aveva collaborato con Gianni Rodari nella redazione del rotocalco Il Pioniere ed era stata in prima fila nella battaglia per il voto alle donne? Mettendo a frutto tutto il suo entusiasmo giovanile, Eliana si dimostrò preziosa il 18 maggio, quando la Camera del lavoro organizzò un convegno di lavoratici stagionali (gelsominaie, raccoglitrici di frutta e verdura, addette alla prima lavorazione dei prodotti ortofrutticoli, etc.). Lo preparò assieme a Tindaro con varie riunioni di caseggiato, nelle quali il tema delle lotte per i miglioramenti salariali e assistenziali si saldava con quelli della campagna elettorale. All’incontro parteciparono un centinaio di lavoratrici di Milazzo e due delegazioni delle frazioni di Barcellona. Pedalando insieme nei sentieri della Piana, per parlare con gli elettori, Tindaro ed Eliana si innamorarono e due anni dopo si sposarono. Il loro matrimonio fu allietato dalla nascita di due figli: Santì e Rosa Elisa, cui inculcarono, fin da quando erano in fasce, gli ideali della libertà e della giustizia sociale.
Nello scorcio del mese di maggio del 1952, al momento della partenza da Milazzo per la sua Poggibonsi, Eliana aveva già abbozzato gli appunti per la relazione alla Direzione del Partito sul convegno delle lavoratrici stagionali. «La maggior parte di queste donne – aveva scritto – hanno lasciato bambini a casa, hanno dato un deciso colpo ai secolari pregiudizi che li tenevano schiave della casa e del padrone. Certo dobbiamo considerare che ciò che le ha spinte sono problemi economici, problemi personali. Ora è compito del Partito e della CdL [Camera del lavoro] dar vita ad organizzazioni femminili, continuando l’agitazione di queste donne lavoratrici e interessando larghi strati di popolazione. Organizzare commissioni di donne che con la carta rivendicativa deliberata al convegno vengano interessate tutte le donne, esercenti, professioniste per la rivendicazione di asili nido […]. È necessario agitare anche il problema di una scuola di riqualificazione di cucito per le ragazze, molto sentita, data la disoccupazione giovanile. Ciò darà la possibilità di creare anche un movimento giovanile femminile. Il Partito si muove tra immense difficoltà soprattutto per l’alta percentuale di analfabetismo tra i lavoratori e le masse popolari in genere, per la miseria, per la deficienza di vie e mezzi di comunicazione, le quali impediscono agli abitanti di diversi paesi e rioni i necessari collegamenti e, quindi, ai responsabili del lavoro di partito si rende difficile poter lavorare ottenendo gli stessi risultati che si possono ottenere in altre zone».
Frattanto a Milazzo le elezioni segnavano un importante successo della lista unitaria di sinistra. Tindaro La Rosa fu eletto di nuovo consigliere comunale e la sua opposizione contribuì a far cadere, già il 15 settembre 1952, la giunta del generale monarchico Domenico Bonaccorso, portavoce degli agrari reazionari, Nel contempo tornarono sul proscenio della storia sociale della Piana le gelsominaie, che scioperarono per ben tredici giorni. Sei di esse, Grazia Saporita e le più agguerrite lavoratrici della contrada Brigandi, finirono in camera di sicurezza. «La vittoria è notevole», commenterà Tindaro La Rosa. Nella seconda metà di settembre, quando non si era ancora spenta l’eco del nuovo successo sindacale, a San Piero Patti Simona Mafai (romana e moglie di Pancrazio De Pasquale), Benito Caputo, segretario della locale Federazione giovanile, e il fratello Saro, che dirigeva la Camera del lavoro, guidarono la lotta delle raccoglitrici di nocciole, che lavoravano dall’alba al tramonto, dormivano nelle capanne di frasca… e subivano i ricatti sessuali dei campieri per 50-70 lire al giorno e un frugale pasto la sera. «Dopo due settimane di dure battaglie e incontri – scrive Benito Caputo – abbiamo firmato presso il Municipio, presente il sindaco [Peppino Gorgone, cresciuto alla scuola di Nino Pino], il primo contratto collettivo di lavoro per le raccoglitrici di nocciole con tre grossi risultati: 1) orario di lavoro di 9 ore, compresa mezz’ora di pausa pranzo; 2) salario minimo per tutte di 175 lire; 3) fatto veramente incredibile per quei tempi, capolavoro politico della compagna Mafai, il licenziamento dei campieri in caso di “molestie o pretese sessuali”».
Pochi mesi dopo Simona andò ad abitare a Messina, dove Pancrazio nell’ottobre 1952 era stato eletto segretario della Federazione comunista. Lei divenne responsabile provinciale femminile del Partito e cominciò ad occuparsi con competenza e passione anche delle gelsominaie. Il tono delle lotte della benemerita categoria, che nel frattempo aveva acquisito maggiore coscienza di classe e più consapevolezza del proprio ruolo, fece il salto di qualità nel 1954 quando, dopo il matrimonio con Tindaro, Eliana si stabilì a Milazzo portandovi quella ventata di fiducia nel futuro, che lei aveva respirato a pieni polmoni in Toscana e alla scuola di partito. Non meno di suo marito, l’agit-prop di Poggibonsi riprese a pedalare nei sentieri dei gelsomineti e continuò a farlo per almeno vent’anni, aggiornando l’analisi politica e contribuendo alla promozione dello Statuto dei lavoratori nelle aziende produttrici di fiori di gelsomino. Guidò assieme a Tindaro altre memorabili battaglie, che poi trovarono una importante cassa di risonanza negli articoli sulla rivista della Camera del lavoro, del PCI e del PSI, Il Riscatto, di cui dal 1954 era direttore responsabile il futuro deputato comunista Alfredo Bisagnani. Uno di questi articoli, recante la data del 22 luglio 1956 e la firma di Eliana Giorli, fu pubblicato sotto il titolo: Le gelsominaie del Milazzese lottano per il loro contratto.
L’economia di questo lavoro non permetterebbe di aggiungere altro. Mi sia, tuttavia, consentito di ricordare che ancora nei primi anni ’70 Eliana non aveva smesso di occuparsi, assieme al marito, di gelsominaie. Anzi, oltre che instancabile animatrice di lotte femminili, continuava a dare prova di rara talent scout. Senza di lei e del suo Tindaro, chissà se Carmen Manna si sarebbe mai occupata delle raccoglitrici di fiori di gelsomini con la tensione ideale di una pasionaria? E si tenga conto che Eliana a Milazzo tenne accesa per tutta la vita la fiaccola dell’Unione donne italiane e del movimento partigiano e che alla veneranda età di 91 anni fu eletta consigliere comunale a Monforte San Giorgio. Non per nulla le fu poi intestata post mortem la sezione dell’ANPI di Milazzo. Sento perciò il bisogno di ringraziare vivamente i fratelli Santì ed Elisa La Rosa per tutto quello che stanno facendo per trasmettere ai figli e ai nipoti, oltre ai geni, anche la libertà di pensiero e i valori di Tindaro e di Eliana. Valori atemporali e refrattari ai cambi di stagione politica, agli umori e ai giri di valzer di questo o quell’altro venditore di fumo, la cui mamma era sempre incinta, nella prima come nella seconda repubblica, e lo è tutt’oggi, nella notte delle vacche nere, che vede l’umanità imboccare la deriva dell’autodistruzione e tanti piccoli e grandi affidatari di leve del potere alle prese con gli algoritmi funzionali alla produzione seriale di semi di qualunquismo e di pensiero unico.
Pippo Oddo
Palermo, 10 novembre 2023
1 Afide della vite, che negli ultimi decenni dell’Ottocento distrusse gran parte dei vigneti in Europa.