A Palermo “Not”, rassegna di vini naturali

“Perché l’agricoltura non è al centro della discussione politica e culturale italiana?” La domanda di Marilena Barbera sulla nostra storia e la nostra collocazione nel nuovo orizzonte geopolitico sintetizza gli umori della conferenza stampa di apertura del NOT – Rassegna dei vini franchi, che si è tenuta lo scorso 9 gennaio a Villa Niscemi a Palermo. L’interrogativo, puntualissimo, della produttrice menfitana apre uno squarcio su un mondo del vino che è molto altro e decisamente più ampio di quello di winelover o di produttori isolati in un sistema votato all’immagine e alla contabilità.

La seconda edizione del Festival ideato e curato da Franco Virga, Stefania Milano, Giovanni Gagliardi e Manuela Laiacona si terrà dal 18 al 20 gennaio ai Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo (Spazio Tre Navate) e sarà anche il primo evento culturale del vino in Italia nel 2020, con circa 130 banchetti di produttori, di cui oltre 110 che parteciperanno personalmente. Il terzo giorno, lunedì 20, è interamente dedicato a ristoratori, sommelier e comunicatori. A conti fatti è insieme un multievento di ampio respiro, volto a promuovere la cultura del vino naturale, e la dimostrazione che molto sta già cambiando nel mondo del vino, specie nel rapporto tra tutti gli agenti di una filiera articolata e complessa.

Lo dice anche Leoluca Orlando, sindaco e padrone di casa: il vino e Palermo sono le due realtà che più si sono evolute negli ultimi quarant’anni in Sicilia, affermandosi in un territorio che sembrava negare loro spazio e prospettiva. Il progetto di una rassegna tutta dedicata ai vini “naturali” – impensabile fino a pochissimo tempo fa e anche ora in altre realtà italiane – è appunto il segno di un prodotto che tiene conto della sostenibilità agricola, di un’ecologia reale, concreta, fatta di problemi da risolvere o almeno da affrontare nel più breve tempo possibile da parte di chi il vino lo fa, lo promuove, lo comunica, lo consuma.

È normale che, con una guerra commerciale in corso dagli Stati Uniti, con un dibattito politico piuttosto polarizzato sulle questioni ambientali, con le perenni e inesauribili pastoie burocratiche, con le ordinarie (ma numerosissime) difficoltà di ogni vendemmia, gli umori siano tanti e diversi. Giusto Occhipinti, Francesco Guccione, Stefano Ientile e i molti altri produttori presenti in sala portano con sé testimonianze e prospettive diverse. Le loro molteplici esperienze sono l’occasione di un ripensamento globale al concetto di qualità, di un confronto serrato e di un investimento senza sconti sul comparto produttivo.

Su quanto possa passare di questa ricerca, di questo cammino sperimentale (che ci auguriamo di svolta reale), abbiamo voluto sentire uno degli organizzatori. Giovanni Gagliardi, calabrese affabile e simpatico, è il “pubblicitario”, colui che insieme a Manuela Laiacona, cura la comunicazione dell’evento. A lui, dunque, chiedo subito il perché di un payoff piuttosto insolito, che fa riferimento al rapporto dei vignaioli con la natura e con il rifiuto di usare prodotti chimici di sintesi che alterino l’equilibrio nel terreno e in cantina.

“Do not interfere – Do not modify”. Perché un messaggio negativo per presentarvi?
“È terribile, lo so, sembra il contrario di quanto si insegna nei manuali di comunicazione, ma funziona bene perché è breve, provocatorio e immediato. Lo comprende anche chi non ha troppa familiarità con l’inglese e il pubblico l’ha letto bene e sembra averlo maturato”.

Quindi l’interferenza c’è stata… ma sul piano culturale!
“Decisamente sì, è una lettura interessante!”

Allora pensi che sia già passato il messaggio nel pubblico?
“La stampa e il pubblico hanno recepito alla perfezione il messaggio. Semmai è mancata la risposta dei ristoratori, abbiamo avuto solo tre adesioni l’anno scorso: per loro, una cantina di vini naturali è un investimento. Ma il costo dei nostri laboratori era ed è tale che consentirebbe di viverlo come un momento di formazione accessibile. Su questo dobbiamo ancora rimboccarci le maniche”.

Come si situano i vini naturali all’interno di un’offerta vasta e oggi molto articolata?
“La legislazione è complicata, perché il termine “naturale” non si può usare in etichetta. Abbiamo anche dovuto rifiutare l’accesso a vini biologici, che spesso sono il frutto di pratiche agricole corrette e rispettose, ma vengono meno alla definizione per l’intervento di lieviti selezionati e per un uso non proprio minimo di solfiti. Anche quando il vino “naturale” – prodotto con lieviti indigeni – è il singolo esperimento di un’azienda corretta e attenta che decida di lanciarsi nel settore, noi lo ospitiamo”.

Oggi guadagnano terreno commerciale nuovi tipi di definizione del vino (vegano, biologico, biodinamco e, appunto, “naturale”). Non trovi significativo che intanto molti disciplinari perdono appeal e sempre più spesso i produttori escono dalle denominazioni territoriali?
“I vignaioli naturali si allontanano dalle commissioni che stabiliscono cosa è DOP e cosa non lo è: il loro standard selettivo è tarato sull’enologia industriale degli anni ‘70 e ‘80. Quando per più volte i produttori si vedono rifiutare i vini, allora rinunciano volentieri al simbolo in etichetta e preferiscono definizioni più generaliste che puntino dritto al contenuto”.

Esiste un termine unificante, un filo rosso che unisce questi prodotti, li lega alla loro storia, ai loro vignaioli… qualcosa che segni una svolta?
“Io ho lavorato a lungo in Toscana e, tra gli altri, ho incontrato un distributore di prodotti dell’azienda regionale dello sviluppo rurale. Gli ho chiesto che ne pensasse di questo improvviso interesse per i prodotti tipici, se fosse una moda e tutto quello che possiamo supporre. Sai che mi ha risposto lui? Che quando si innesca la verità, quando i consumatori vengono a conoscere un prodotto per quello che è, non si può più tornare indietro. Non si torna indietro”.