Agroalimentare e Zootecnia

‘U Zu Micu l’ultimo capraio

 

micu

In Sicilia la capra girgentana, da sempre, è stata l’ani­male che maggiormente ha attratto la curiosità dei visita­tori, sia per le sue corna a cavaturaccioli che raggiungo­no anche il metro di altezza, sia per le sue doti di rusticità e di resistenza, utilissime nell’entroterra dove non è facile vivere. Questo erbivoro, apparentemente scontroso, mostra, viceversa, facilità di adattamento e propensione alla convivenza, tanto do diventare, nel tempo, un tutt’uno con il suo padrone; la sua adattabilità lo porta a ricercare le essenze meno gradevoli degli altri erbivori, e per questo, è capace di arrampicarsi nei punti estremi al di fuori dei dislivelli praticabili. Questo animale va anche apprezzato per l’ottima produzione di latte; con un contenuto in grasso del 4% circa, riesce a regalarci uno squisito formaggio ed una suadente ricotta. A tal proposito, in Sicilia è proverbiale il detto: Cascavaddu di vacca, tumazzu di pecora e ricotta di crapa (Caciocavallo di mucche, formaggio di pecora e ricotta di capra). Nonostante la sua apparente aggressività, data dalle sue possente corna, riesce a sal­dare un ottimo rapporto con gli umani.

Di ciò, è testimone Domenico Maniscalco, per gli amici e compaesani conosciuto come “Micu ‘u craparu”. La sua, è una delle testimo­nianze più significative di un pezzo di Sicilia che resiste alla globalizzazione ed ai muta­menti dei tempi. Cordiale, sorridente, affabilità prorompente, sembra uscito fuori da una favola per ragazzi; esterna tenerezza e dolcezza e, con il suo viso sereno e gli occhi neri e vivaci, anticipa l’instaurazione di un rapporto facile e duraturo.

Le capre, da sempre, hanno costituito tutto il suo mondo; una vita trascorsa, fin dalla tenera età, ad accudirle, senza un giorno di sciopero o di noia, col sole o con il freddo, con la pioggia e con la neve. Esempio di vero uomo, che orgogliosamente vuole resiste­re e mantenere la sua autenticità di “craparu”. Minuto, elegante, appena accenna un sorriso mostra i suoi denti bianchi e puliti; il suo parlare è lento e poco fruttuoso, e soprat­tutto ripetitivo. Parla continuamente, racconta aneddoti, fatti, e riesce ad immobilizzarti, a suo dire, come “no crapa ‘mmasata” che resta immobile sul costone di roccia impaurita per la sua posizione pericolosa. Ogni passante, grande o piccolo che sia, lu scummetti (lo saluta) con l’appellativo di “…zu Micu…..”; il capraio, dopo che il giovane si è allontanato sorridente dice: “hai visto quanti nipoti ho in paese?”. Per tutti Domenico ha una parola di compiacimento o di saluto da portare a Tizio o Caio. Se provi a chiede­re da quanti anni svolge il mestiere di capraio, Micu ti risponde sorridente “di quann’eru crìaturi”. E subito inizia il racconto della sua vita. Orgogliosamente esordisce dicen­do, la sua è la terza generazione di caprai, e che le capre, in questo lasso di tempo, hanno consentito di sfamare circa cinquanta persone. Da piccolo accudiva le capre di suo padre e, successivamente, a diciottenni il grande sogno: Micu riesce a mettersi in proprio ed avere un suo gregge. Parla, parla…. ed il suo racconto è sempre pieno di saggezza, e continuamente ringrazia la santa Provvidenza che da sempre lo ha assisti­to. Domenico è rispettoso del suo prossimo, mai una parola contro questo o quell’altro, persino quando in paese i caprai erano più di cinque e la concorrenza era forte. Si ferma. Un piccolo sorriso e poi ricomincia il racconto. La sua statura minuta, cosa che lui ritiene di grande vantaggio, in quanto gli ha fatto scansari (evitare) il militare, gli faci­lita la mimetizzazione con i suoi animali, in questo modo li controlla facilmente. Il suo lavoro, fino a qualche decennio addietro, iniziava alle cinque del mattino; seguito da un manipolo di capre girava per il paese mungendole a domicilio. Un rituale che si ripete­va giorno dopo giorno, al punto che gli animali conoscevano il tragitto e si fermavano davanti la porta di casa del cliente come se fossero telecomandate. Rituale venuto meno in seguito all’entrata delle nuove norme igenico-sanitarie. Non per questa Mico ha abbandonato i suoi affezionatissimi clienti. Il nostro eroe si è fornito di una resistente borsa di stoffa azzurrognola dove all’interno trovano posto alcune bottiglie di latte, che puntualmente consegna a domicilio. Soltanto per un periodo, a causa di un incidente dovuto ad una saetta che gli era caduta ai suoi piedi, Domenico, rimase lontano dalle sue capre, ed il figlio, constatata l’impossibilità del genitore di tornare a fare il capraio, fu costretto a vendere tutti gli animali. A questo punto del racconto Domenico diventa serioso e con un filo di voce dice: “a me vita avia finutu”. Quando le forze gli consenti­rono di muoversi agevolmente il primo pensiero fu quello di ricomprare le capre e rimet­tere in piedi l’azienda. Vita dura, fatta di stenti e di sacrifici. E di ciò, è testimone il suo viso scalfito da profonde commessure, che come un largo sorriso, mostrano gli stenti e le sofferenze assimilate nel corso della sua vita lavorativa. Il suo territorio è ‘u vignali” (viene indicato il territorio limitrofo al paese) di Chiusa Sclafani: terreni incolti, bordi di strade o terreni presi in affitto che costituiscono il pascolo per le sue capre. Per anni, Micu e le capre sono vissuti accanto; infatti, aveva costruito un piccolo ovile adiacente la sua abitazione, alla periferia del paese: averle accanto lo faceva sentire tranquillo. Di notte, le capre lo chiamavano belando, e dal tono, riusciva a capire quale animale voleva dir­gli qualcosa. A causa di una infamità (denuncia), il povero Micu dovette trasferire le povere bestie in luogo distante dal centro abitato, “picchi quarcunu dicianu ca facianu puzza, (qualcuno diceva che gli animali facevano cattivo odore). Lui con la nobiltà d’a­nimo che si ritrova ha portato gli animali in luogo “asciuttu e cummiditusu” (asciutto e comodo). D’altronde, la pazienza e la rassegnazione di craparu da queste parti è pro­verbiale. Le capre sono la sua vita e con loro il rapporto è vivo e continuativo. Russino, Bianchina, Facci bedda, sono alcuni nomi che ha dato alle capre, mentre al becco, gli ha affibbiato Lunardu, cioè, lo stesso nome di colui che ha fatto la spiata. Con tono paca­to chiama le sue capre. Un suono emanato a bocca larga con la lingua tremante “…PrPrPrPrPrPr…”, e come per incanto le bestie si muovono con una agilità scattante, come se fossero telecomandate. Si! Lui con le capre parla, e loro, lo capiscono. Micu sostiene anche, che riesce perfino ad educarle; infatti, “nun scunfinanu”, cioè non appro­fittano delle coltivazioni agricole, e con un fischio o un urlo ritornano sui loro “passi”.  Domenico è forse l’unico capraio che non usa le pietre o “u vastuni” (un bastone di man­dorlo passato alla fiamma) per farsi obbedire. La sua vita e la sua fortuna sono state sempre le capre, e per loro ha deciso di non partire; viceversa, altri suoi colleghi non hanno resistito all’attrazione di “paradisi economici del nord Italia”. Lui è rimasto con le sue capre quasi a sfidare il tempo e tutte le economie. Ha detto no! E la vita lo ha ricom­pensato. Con cinquanta capre circa ha mantenuto la sua famiglia, fatta di quattro figli, dei quali nessuno ha voluto fare più il capraio. Fa lo stesso. In fondo basto solo io, dice Domenico; “‘nzumma, capraru nascìvu e craparu voggliu morir?’ – capraio sono nato e capraio voglio morire. Le capre hanno sfamato la sua famiglia; con il ricavo della ven­dita del latte del formaggio e della ricotta ha costruito la sua bella casetta e sposato tutti i suoi figli. Le capre gli hanno permesso di vivere una vita, forse meno ricca e con pochi comodità, ma sicuramente più vera e dignitosa e alla sua famiglia non ha fatto mancare mai niente, anzi gli ha consentito di vivere felicemente.

E la sua soddisfazione è testimoniata dalle lunghe suonate con lo zufolo, che con tanta passione ha appreso da altri caprai. Con il suo strumento di canna, costruito con pazienza e amore, si esibisce solo esclusivamente per le sue capre, che a suon di musica, producono quantitativi di latte superiore al consentito. Di rado, quando è invitato a sposalizi, tira fuori dalla sua giacca lo zufolo suonando brani di cui sconosce il titolo e da dove l’appreso. Durante la sua esibizione le capre restano impassibile e alla fine dell’esecuzione li senti belare come se chiedessero il bis.

In questo lembo di terra sicana, dove il territorio non è certo generoso, “u zu Micu”, è testimone privilegiato ed incon­sapevole del più moderno movimento dei “no global”.