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Agricoltura e non solo: basta con inglesismi e acronimi

Tra le tante laure, patentini e diplomi che i nostri agricoltori devono conseguire (Patentino fitosanitario, patente agricola, conduttore di azienda, ecc.) per restare a coltivare la propria azienda, da qualche anno, devono necessariamente conseguire anche la laurea in lingue, in particolare quella inglese.

Provate a leggere qualche giornale agricolo o ascoltare alcuni parlamentari o dirigenti dell’agricoltura del Ministero o della Regione, per constatare come il loro linguaggio è strapieno di inglesismi e di acronimi.

Questi sono solo alcuni dei termini utilizzati: fondi Recovery Fund, budget assegnato, Next Generation EU, o, Green Deal, Farm to Fork, agrifood, agri-smart, UK Global tariFF (Si tratta semplicemente di una tariffa doganale), No Deal, nonché il tormentone e-commerce, ecc.

Ancora più assurdo è l’utilizzo degli acronimi, solo per fare qualche esempio: (RRF) “dispositivo per il recupero e la resilenza” i fondi NGEU che più semplicemente segnifica Next Generation EU; obbligo dell’ RT, poi abbiamo il ReactEU, Orizzonte Europea investimenti EU, Just Transition Fund (JTF), Resc EU, ecc.

Altri esempi. Questo è il titolo di un articolo di qualche settimana addietro: “Occorre dotare gli agricoltori di una toolbox per la difesa sostenibile”. Ma anche la ministra Bellanova non scherza, un suo comunicato stampa annuncia che: Il Pnrr dovrà avere assolutamente un cuore agricolo”.

Questi sono soltanto alcuni esempi, ma potremmo continuare all’infinito. E’ veramente necessario parlare in questo modo agli agricoltori? Non sarebbe più opportuno dialogare in maniera più semplice e comprensibile?

“L’agricoltura italiana – sostiene il Ministro Bellanova – soffre particolarmente del fenomeno della senilizzazione: solo l’8% delle aziende agricole ha un capo azienda under 40, per ogni giovane imprenditore ce ne sono 5 anziani”. Quindi è conseguenziale pensare che questi nostri imprenditori possano avere difficoltà con l’inglese e con gli acronimi. La stragrande maggioranza di questi “enciclopedie ambulanti” in campagna parlano con gli animali, comprendono le variazioni climatiche, curano piante e animali, sanno potare e innestare, producono prodotti meravigliosi,  riconoscono se durante il giorno pioverà o meno, ma non ho mai sentito dare “comandi” ai propri animali in inglese o in altre lingue.

Tra l’altro, gli inglesi hanno deciso di andare via dal Parlamento europeo, allora perché continuare con questa esterofilia? Provate a qualche politico straniero a farlo parlare in italiano, o qualche personaggio inglese o tedesco, a malapena ridendo vi diranno solo ciao.

Mi piace citare quello che è successo qualche settimana addietro alla Camera dei Deputati. Il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli stava leggendo le carte che gli uffici avevano predisposto, quando a un certo punto si è imbattuto nel termine “performances”: il parlamentare si è subito bloccato e, un attimo dopo, ha corretto l’inglesismo con il termine “prestazioni”. Poi l’appello deciso: “Siccome ci troviamo nel Parlamento italiano e non nella Camera dei lord, i testi devono essere scritti in italiano”. E ancora: “Dovete modificare tutto ciò che arriva in Parlamento con parole straniere. Non voglio più vedere vocaboli inglesi tra le carte della presidenza”.

Ma la problematica affligge anche noi tutti risparmiatori. Per esempio, capirebbero meglio se al posto di «bond» utilizzassero la comprensibile «obbligazione». O se invece di «break even» si usasse il chiaro «punto di pareggio». Il «downgrading» non è un mistero iniziatico, è semplicemente un «declassamento». Per non parlare dell’ostico «credit crunch», sostituibile con una accessibile «stretta creditizia». In quanto alla politica, un «endorsement» di un maggiorente di partito verso una candidatura è assai banalmente un «sostegno», o un «appoggio»: non è tutto più esplicito?

Da parecchio tempo autorevoli studiosi e professionisti appartenenti ad importanti istituti accademici italiani denunciano l’uso sproporzionato della terminologia così detta «esterofila» che nella migliore delle ipotesi è utilizzata per ragioni di sintesi, più spesso invece per pigrizia, per atteggiarsi da persone colte o, come ha scritto qualcuno, per non far capire ai più di che cosa si stia parlando. «È sorprendente che il legislatore italiano debba ricorrere ad un anglismo». Così l’Accademia della Crusca bacchetta il Parlamento italiano sull’uso di termini inglesi nella proposta di legge sulle attività di ristorazione svolte fra le mura domestiche. “Home restaurant” è la terminologia sotto accusa. Secondo la Crusca non vi è necessità di «ricorrere all’anglismo “home restaurant”, quasi che l’arte culinaria casalinga del nostro Paese abbia origini oltre Manica». La lingua italiana, secondo l’Accademia, dispone di un termine per designare ciò di cui si legifera, immediatamente comprensibile per tutti e che «riunisce semanticamente tutti gli elementi della definizione che il testo di legge fornisce dell’attività in questione: ristorante domestico».
Vorrei rammentare a tutti che, ad ogni parola inglese, ce n’è una corrispondente in lingua italiana, che in quanto ad estetica e suono non ha nulla da invidiare alle altre.