A Bagheria, senza sfincione non è festa: come riconoscere il migliore

Sono sicuro che Dacia Maraini mi perdonerà se utilizzo una celebre frase del dialogo tra Marianna Ucria, protagonista del celebre romanzo, e la zia monaca: “Ma tu lo sai che cos’è l’inferno? E’ una Palermo senza pasticcerie”.

Per raccontare il sentimento che lega i bagheresi con lo sfincione prendo in prestito questa frase della Maraini e la trasformo: “Ma tu lo sai che cos’è l’inferno? E’ una Bagheria senza sfincione”. Si, perché a Bagheria, senza sfincione non è Natale.

Oggi lo sfincione è diventato buono per ogni festa e occasione venendo a perdere quella sacralità alimentare della celebrazione del santo Natale; inoltre c’è il pericolo di banalizzarlo sottoponendolo a prodotto dello street food o cibo di strada, dimenticando il glorioso passato di questa identità territoriali che uno dei più illustri personaggi bagheresi Antonino Buttitta, indicava come “marca di riconoscimento”.

Questa leccornia a Bagheria a Natale, oltre ad essere elemento di festività, era anche occasione per sdebitarsi di qualche favore ricevuto o da cui si attendeva un piccolo beneficio.

Lo sfincione per Natale di qualche decennio addietro aveva anche queste prerogative. Le case si trasformavano in piccoli laboratori gastronomici per dare vita a concentrati di sapori e odori, profumi forti e interminabili che andavano a “marcare” ogni angolo di strada, vicolo o cortile.

Per non scontentare, il Salvatore, qualche giorno prima della festa, i devoti si mettevano in movimento per dare vita al grande spettacolo sacro-profano: ‘u sfinciuni.

Se l’odore dell’incenso riaffermava nelle chiese la sacralità dei riti natalizi, nelle strade il Natale veniva preannunciato dai profumi dello sfincione e delle “conse”.

Qualcuno ricorda la ciurmaglia di femmine e di chiacchiericci che si formava all’interno dei forni; donne indaffarate, eccitate, con la consa conservata all’interno di lemmi coperti dalla classica tovaglia bianca-blu o bianca-rossa a scacchi, per non mostrare il segno dell’abbondanza o della povertà.

I fornai predisponevano i dischi di pasta e giù tutto il condimento. Centinaia di sfincioni che avevano bisogno di essere individuati, spesso si utilizzavano dei segnali contraddistintivi come rametti di ulivo, olive, ecc., il tutto, per assicurarsi che il proprio sfincione non andasse a finire in mani sbagliate. La preparazione dello sfincione era abbastanza lavorato occorrevano giornate intere, per la sua sofficità si iniziava a farlo lievitare anche 24 ore prima, mentre l’alchimia dei profumi del condimento sprigionavano quei riflessi incondizionati sempre pronti a procurare una fontana di salivazione.

Comunque sia, il bambinello per il suo cenone, pretendeva, oltre allo sfincione, i cardi bolliti, i mandarini e le sfince e naturalmente vino in quantità.

Personalmente ritengo che debba essere chiamato torta bianca salata, poiché questa prelibatezza ha prerogative singolari, infatti, è: aristocratico, gourmet e intriso di storia.

Un gioiello gastronomico che non è meno delle meravigliose ville bagheresi che fanno invidia al mondo intero, patrimonio che meriterebbe un riconoscimento UNESCO.

Sfincione che non può essere messo a confronto con gli altri omonimi siciliani, spesso indicati dai loro realizzatori come “scarsi d’ogghiu e chini di pruvulazzu”.

Lo sfincione bagherese sono “Cocci di cultura ritrovata”, il cui merito spetta all’associazione bagherese “La Piana d’Oro” che oramai da qualche anno lo ha eletto a prodotto bandiera della comunità, elemento aggregante poiché attorno a questo disco di pane la comunità si continua a identificarsi e ritrovarsi.

Questa forte identità ha favorito il consumo dello sfincione che non è legato al calendario liturgico ma è uscito fuori dalle logiche festaiole per essere prodotto quotidianamente.

Questo successo ha determinato la creazione di una comunità Slow food, di cui Adalberto Catanzaro, Michele Balistreri e Rossella Scànnavino, insieme agli amici di Slow Food tengono alto il vessillo, al punto che hanno già attivato, insieme ai panificatori bagheresi, le procedure per il riconoscimento europeo della Dop.

Come si riconosce un buon sfincione bianco bagherese.

Aspetto visivo:
Va rispettata sicuramente la forma, mantenendo la struttura sferica. L’aspetto deve presentare delle alveolature medie, ottenute da una buona lievitazione; inoltre non deve presentare bruciature superficiali, con cottura uniforme e debolmente umido.

Analisi olfattiva:
Deve avere profumo di semola e richiamare l’odore del pane. La consa deve essere equilibrata tra tutti i suoi componenti. Il flavour dell’olio deve essere naturale e privo di difetti; mentre i profumi della consa devono essere intensi e duraturi, con la capacità di inebriare.

Analisi gustativo-olfattivo
Sapore equilibrato tra i vari componenti; conferma dei profumi in bocca di quelli percepiti nell’aspetto olfattivo; gli aromi devono mantenere una certa persistenza e un retrogusto continuo; l’equilibrio degli ingredienti devono essere bilanciati, ma mantenendo le varie sensazioni gustative. Lo sfincione deve essere armonioso con sensazione finale di piacevolezza complessiva del piatto. Inoltre deve essere capace di emozionare ed evocare la ritualità e la festa.

Riguardo al vino, personalmente sono un po’ fissato, preferisco sempre vini prodotti nel territorio. A questo piatto aristocratico e gourmet consiglio il “Duca Enrico” delle Tenute Duca di Salaparuta, uno dei vini simbolo dell’enologia italiana e internazionale ed è stato il primo vino a essere prodotto in purezza con le uve di Nero d’Avola, nella storia dei vini siciliani. Per meglio raccontare questa preziosità mi affido al giudizio organolettico del mio caro amico Angelo Concas, giornalista enogastronomico: “Duca Enrico all’analisi organolettica si concede con un bel colore rosso rubino intenso e con delle tenue sfumature tendenti al color granata. I suoi profumi eleganti e penetranti sono ricchi di note speziate, vanigliate, balsamiche (riconducibili all’inchiostro di china) e di frutta rossa matura; tra queste spiccano la ciliegia marasca, la prugna e la confettura di ribes nero. I sentori floreali presenti riportano alla memoria i bouquet di fiori a petalo rosso appassiti. L’ingresso in bocca è potente, caldo, sapido, vellutato, armonioso. Un vino talmente ricco di estratti che regala a tutta la cavità orale un’elegante sensazione tattile donata dai tannini ben fusi e levigati dal lungo affinamento e una gradevolissima piccantezza. Il sorso di vino, una volta deglutito, lascia una lunga persistenza aromatica e un fin di bocca che conferma appieno tutte le sensazioni in precedenza percepite.
Aspettando il prossimo “Sfincione fest” non mi resta augurare, insieme alla redazione di All Food Sicily e del Presidio Sow Food di Bagheria: Buona Natale con sfincione e un bel bicchiere di vino Duca Enrico.