San Martino, non solo vino ma anche l’inizio dell’annata agraria

L’11 novembre la Chiesa celebra la festa di San Martino. Una solennità che come scriveva nel 1882 Enrico Onufrio «Anche a San Martino, il dio delle battaglie, il popolo palermitano è devoto ; devoto al suo solito, s’intende, vale a dire banchettando a maggior gloria del santo. È un tal giorno che s’imbandiscono a tavola i più grossi tacchini della terra; e cotesta del tacchino è un’abitudine così inveterata, che tu non sai bene se la festa sia in onore del dio Martino, o del dio Tacchino; è un bellissimo argomento per un archeologo. Il dolce occasionale di San Martino è il biscotto, un biscotto sui generis, grosso e rotondo, e per conservare intatte le sacre tradizioni degli avi, cotesto biscotto bisogna inzupparlo nel moscadello. E crepi l’avarizia!».

Martino nacque a Sabaria in Pannonia, l’attuale Ungheria attorno al 316 o 317 d.C. e morì a Candes in Francia 1’8 novembre 397. La sua ricorrenza cade l’11 Novembre, il giorno dei suoi funerali a Tours. Figlio di un ufficiale della guardia imperiale romana, di cui seguì per qualche tempo l’esempio. Al cristianesimo approdò da adulto, ad Amiens. Ma ciò non gli impedì di fare una brillante carriera ecclesiastica. Acclamato vescovo di Tours (4 luglio 371), Martino fece sentire la sua voce ben oltre i confini della propria diocesi. Fu amico personale di sant’Ambrogio di Milano, s’impegnò in accese dispute teologiche in difesa dell’autonomia del magistero ecclesiastico ed è considerato l’artefice principale della penetrazione del cristianesimo in Gallia, per il tramite dell’Abazia di Marmoutier da lui stesso fondata. Per questi suoi meriti la monarchia merovingia lo scelse come protettore del regno franco. Il suo nome fu inoltre speso proficuamente per promuovere la messa a coltura di estese aree dell’Europa centro-settentrionale tradizionalmente occupate dalle foreste e dal pascolo.

Ciò spiega la popolarità del Santo negli ambienti contadini di varie regioni d’Italia: «Simbolo dell’abbondanza, egli riceve in vari luoghi, tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate, le primizie dei campi (fave fresche in baccelli, spighe di grano, di orzo, ecc.). Passando per un’aia quando si batte il grano, o per una vigna in tempo di vendemmia, o innanzi a un granaio quando vi si immette il raccolto, i contadini salutano invocando San Martino! La sua festa porta con “l’estate di S. Martino” un risveglio di vita nei villaggi, ove si preparano i dolci (sammartini) da inzuppare nel vino».
La sua fama l’ha conquistato con uno degli atti più generosi della storia o della leggenda, fate voi. “Il cielo era coperto, pioveva e soffiava un vento che penetrava nelle ossa; il cavaliere Martino, avvolto nel suo ampio mantello di guerriero, trova lungo la strada un povero vecchio coperto soltanto di pochi stracci, barcollante e tremante per il freddo. Martino lo guarda, e preso da una stretta al cuore, si toglie il mantello, lo taglia in due con la spada e ne dà una metà al poveretto. “Dio ve ne renda merito!”, balbetta il mendicante, e sparisce. Martino, contento di avere fatto la carità, sprona il cavallo e se ne va sotto la pioggia, che comincia a cadere più forte che mai, mentre un ventaccio rabbioso pare che voglia portargli via anche la parte di mantello rimasto che lo ricopre a malapena. Ma fatti pochi passi ecco che smette di piovere, il vento si calma e di lì a poco le nubi si diradano e se ne vanno. Il cielo diventa sereno, l’aria si fa mite. Il sole comincia a riscaldare la terra obbligando il cavaliere a levarsi anche il mezzo mantello. Ecco l’estate di San Martino, che si rinnova ogni anno per festeggiare un bell’atto di carità ed anche per ricordarci che la carità verso i poveri è il dono più gradito a Dio”.

La vita di San Martino è contorniata di altre storie più o meno simili, ma comunque sempre di grande effetto. Secondo un’altra leggenda, San Martino si portava sulle spalle la sorella per evitare che cadesse preda dei vogliosi concittadini, ma vanamente, perchè questa trovava sempre il modo per sfuggire alla sorveglianza del fratello.

Il santo è considerato patrono dei soldati e dei viaggiatori, ma è anche ritenuto il patrono dei cornuti. Le motivazioni sono diverse: per alcuni è dovuto alle numerose fiere di bestiame, per lo più munito di corna, che si tenevano proprio nel periodo attorno all’11 Novembre, oppure, secondo un’altra ipotesi, perché in questo periodo si svolgevano 12 giorni di sfrenate feste pagane, durante le quali avvenivano spesso adulteri. Altri ancora pensano che derivi dallo stesso giorno, l’11 Novembre, 11/11, che ricorda il segno delle corna fatto con le mani. In Sicilia Martinu è addirittura il nome del becco. Prova ne sia che quando si vuole incitare il marito della capra a battersi a cornate, «facendogli un gesto con la mano sinistra, gli si dice: Truzza, Martinuu».

Per Pippo Oddo: “In Sicilia il Santo ha assunto connotati più urbani che rurali. La stessa festa, che la liturgia ecclesiastica celebra in novembre (data della tumulazione del glorioso Nostro. Signore. In nessun centro agricolo, piccolo o grande che sia, san Martino è stato mai scelto come patrono, nemmeno a Caltagirone dove era chiamato scherzosamente carruggiaru, perché il giorno della sua festa se ne portava in giro la statua attraverso i carruggi.

A ben riflettere, quella processione, tra le poche se non addirittura la sola che si svolgesse nell’Isola in onore del Santo, doveva essere stata istituita per iniziativa di un gruppo di Genovesi residenti a Caltagirone, perché è appunto a Genova che si chiamano carruggi i vicoletti o vaneddi che dir si vogliano”.

I canti dell’aia, che da noi tessono le lodi persino dei santi più oscuri, ignorano quasi il nome di san Martino. Gli stessi proverbi agrari sono avari di riferimenti al Santo e i pochi che vi accennano si limitano a prendere in considerazione solo la data della festa. Uno, raccolto a Naso nel secondo Ottocento, recita: ‘U bonu siminatu a menzu novemmaru è cuminsatu: sinu a san Mortimi favi, puseddi e linu; doppu san Martinu, megghiu ‘n terra ch’o mulinu. (Il buon seminato prima della metà di novembre è cominciato: sino a [la festa di] san Martino [semina] fave, piselli e lino. Dopo san Martino [il grano] sta meglio sotto terra che al mulino)”.

Per il santo di Tours si consumano i viscotta di san Martinu o sanmartinelli, dolce che veniva messo in vendita a Palermo attraverso la riffa (sorteggio).

Antonino Uccello parlando di Palermo descrive la presenza a di tre tipi di biscotti di san Martino: «uno a forma di seno simile a quello che si confeziona a Licata; un altro più piccolo, come una pagnottella, detto “sammartinello”, e un terzo, ripieno di pasta di mandorla, conserva e pan di Spagna imbevuto di liquore, ricoperto di una colata di zucchero, confettini argentati, cioccolatini, e riccamente decorato con fiori e ciuffetti verdi». Di più, si possono acquistare Sammartinelli imbottiti di ricotta e cioccolata.

Il sanmartinello, quello più comune a forma di seno è comunque diffuso in tutti i paesi della Sicilia. “A Ispica e in altri comuni del Ragusano «il giorno di san Martino viene festeggiato con la preparazione, da parte di quasi tutte le famiglie del paese, delle crispelle, dolci tipici di pasta lievitata con ripieno di uva passa e noci».

Pippo Oddo riferisce: “Ma la più bella festa di san Martino è senza dubbio quella di Palazzo Adriano, pittoresco paesino d’origine albanese della Valle del Sosio. L’11 novembre i genitori, i parenti e gli amici delle coppie convolate a nozze durante l’anno regalano agli sposini abbondanti provviste alimentari, dolciumi, pupazzi, biscotti di san Martino, oggetti di uso domestico e persino carbone. Alla suocera spetta provvedere all’invio della scorta viveri; altri parenti e gli amici si fanno invece carico degli utensili da cucina, dalla padella alla pentola. Come augurio di un’abbondante proliferazione quest’ultima può essere addirittura grande quanto il “quadaruni” usato dai pastori per la caseificazione del latte di un intero gregge.

Il compilo di portare i doni agli sposi è delegato esclusivamente ai bambini. Ed è spettacolo commovente vedere tanti angioletti parati a festa far le veci della Befana sotto lo sguardo amorevole dei grandi. Il pezzo più appariscente è il “cannistru” grossa cesta adorna di fiori e fiocchi colorati, con una tovaglia ricamata su cui viene riposto ogni ben di Dio: pasta, frutta secca, dolci, biscotti di san Martino… Al centro del cannistru splende, come sole allo zenit, la “Pitta”, che del sole evoca appunto l’immagine, rotonda com’è. Eppure è solo una focaccia azzima o con poco lievito. Focaccia speciale, però, su cui sono stampigliati – con un bollo identico al prototipo portato nel XV sec. dall’Albania – tre cerchi concentrici con i simboli dell’identità albanese: l’aquila bicipite sormontata da una corona, due colombi ai lati di un cuore, un ramoscello d’olivo, un vaso, cani, uccelli, un pesce e ghirigori vari. Per chiuderla qui, è festa da non perdere quella di Palazzo Adriano, gioiosa manifestazione di autentica solidarietà fra poveri, che rende perciò in qualche misura giustizia alla vera missione terrena del Santo di Tours”.

La festa del vino

Un motto conosciuto in tutta l’Isola vuole che: Pi san Martinu si tasta lu vinu. (A san Martino si assaggia il vino). Circostanza questa che – come ha notato acutamente Pitrè – rimanda senza troppi sforzi di fantasia alle Antesterie di classica memoria, il cui primo giorno (11 novembre, appunto) era chiamato dai Greci Pithigia, «poiché in esso gli antichi spillavan le botti e assaggiavano il mosto […]. Anzi gli antichi, meno temperati de’ cristiani, non si contentavano d’un solo giorno di festa, ma ne facevano anche tre, coronati il capo di fiori, e fiori portando in giro per la città, dopo aver bevuto al buon genio: baccanali che poi si ripetevano nelle prossime feste di questo nome».
Dunque la festa di san Martino, altro non sarebbe che l’equivalente cristiano dei festeggiamenti in onore di Dioniso, con tutto il loro apparato di manifestazioni orgiastiche. Da qui gli eccessi ottocenteschi: «Non è a dire la baldoria che si fa per il pranzo di questo giorno quando vi sono convitati» commentava a tal proposito Pitrè. «Si mangia a crepapelle e si sbevazza fino alla sazietà; conseguenza: chiacchierio, vocio, urli, un vero baccano, i cui attori principali sono gli uomini. Così si crede anche di fare onore al Santo».
In Sicilia le pietanze che rinforzano il riti sono dei biscotti San Martinelli e le cosiddette muffolette.

San Martinelli

Ingredienti: 250 g. di farina, 50 g. di zucchero, 40 g. di strutto, 10 g. di lievito di birra, semi di anice q.b., acqua tiepida q.b. (io ho usato ½ bicchiere).
Preparazione: sciogliere il lievito in metà di acqua tiepida.In una ciotola capiente versare la farina setacciata, lo zucchero e i semi di anice. Mescolate tutti gli ingredienti e unite lo strutto morbido, amalgamando tutti gli ingredienti impastando con le mani. Versate poco alla volta l’acqua con il lievito sciolto, unite anche la restante acqua e impasta. Trasferite il composto sul piano da lavoro e continua ad impastare fino ad ottenere un composto sodo, liscio e compatto. Formate un panetto, riponi l’impasto nella ciotola e lascia lievitare per circa 1 ora, dovrà raddoppiare di volume. Passato il tempo di lievitazione prelevate dei pezzettini di impasto e forma con ognuno dei cordoni della lunghezza di circa 12 centimetri e arrotolali su se stessi fino a formare una chiocciolina. Sistemate le chiocciole su una placca da forno e lascia lievitare ancora per circa 40 minuti. Trascorso il tempo mettete a cuocere i Sanmartinelli in forno già caldo a 200 ° per 10 minuti, abbassa fino a 180° e cuoci per altri 10 minuti. Fate attenzione a non farli colorire troppo dovranno risultare asciutti. Sfornate e lasciate raffreddare i biscotti. Servili accompagnati da vino moscato o se preferisci vino novello per inzuppare.
Le muffolette
Le muffolette vengono preparate sia in versione dolce salata. Per muffuletta, anche detta muffoletta, muffuletto o guastedda, si intende una pagnottina rotonda soffice. Alternativamente, in molte località siciliane viene preparata durante le locali celebrazioni religiose della commemorazione dei defunti del 2 novembre e dell’Immacolata Concezione dell’8 dicembre. Nel palermitano, il panino viene usato per preparare il tipico pani câ meusa. Nella zona di Cinisi, una ricetta popolare prevede i impasto con la presenza della fecola di patate e la frittura, gustano calde con la ricotta e inzuppate nello sciroppo fichi.

Ingredienti: 250 gr. farina 00, 250 gr. Semola rimacinata, 10 gr. di lievito di birra, 280 gr. di acqua
40 gr di olio extra vergine di oliva, 3 gr. di semi di finocchio, sale p.b..
Preparazione: in un recipiente, sciogliere il lievito nell’ acqua, aggiungere la semola rimacinata, la farina 00 ed amalgamare bene. Unire i semi di finocchio, il sale, l’olio ed impastare bene tutto meglio se con la planetaria per circa 15 minuti. Coprire con pellicola trasparente e far lievitare fino al raddoppio. Passare la pasta sul piano da lavoro spolverizzato con la semola rimacinata. Prendere pezzi di pasta della grandezza desiderata e formate delle pagnottine, schiacciatele leggermente e fate lievitare di nuovo. Cuocere in forno già caldo a 200° fino a leggera doratura. Ottime tagliate e condite con olio, sale e pepe macinato fresco.

Inizio dell’annata agraria

L’ 11 novembre rappresenta da anni una data significativa per il mondo agricolo per il contesto lavorativo e produttivo agricolo.
Per consuetudine e per convenzione San Martino è il momento iniziale delle affittanze agrarie, quindi l’inizio dell’annata agraria, cioè viene definito il periodo di tempo che secondo il legislatore copre l’inizio e la fine di tutte le attività connesse ad un’azienda agricola. L’anno agrario è quello che intercorre tra l’11 novembre e il 10 novembre dell’anno successivo.
Il mondo dell’agricoltura ha seguito per secoli lo scandire di questa data e ancora oggi in Italia e in altri Paesi europei il giorno di San Martino viene festeggiato con banchetti e sagre sia nei paesi, numerosi, dove sorgono parrocchie dedicate al santo, sia per l’imminente festa del ringraziamento che gli agricoltori, in segno di fede, dedicano annualmente per i frutti ricevuti dalla terra durante l’annata.