Tipicità

Saperi, sapori e occasione di convivialità nel pesto alla trapanese

Il suggestivo scenario del piano nobile del Palazzo Zingone Trabia (via Lincoln, 47, Palermo), sede dell’Accademia del David, venerdì 24 giugno 2016 è stato teatro di un’originale presentazione del libro di Mario Liberto e Wolly Cammareri, “Pesto alla trapanese, agliata elima, emblema della dieta mediterranea”, Roccapalumba 2016. La sede non poteva essere migliore, e non solo per la soavità dei colori e degli affreschi ottocenteschi, che allietavano la vista e lo spirito dei presenti.
Intanto, l’Accademia del David è nata per divulgare la cultura italiana tramite l’insegnamento della lingua e delle tradizioni che la caratterizzano nel mondo. «Una delle nostre finalità – sostengono i dirigenti della benemerita istituzione – è quella di creare profili interculturali dove i protagonisti saranno, oltre ai “nostri” ragazzi, anche giovani ed adulti provenienti da tutte le parti del mondo». Per la sua storia e il contesto urbanistico in cui sorge, il Palazzo Zingone Trabia finisce per esaltare sia il progetto dell’Accademia, sia il leitmotiv ispiratore dell’opera di Mario Liberto e Wolly Cammareri: la valorizzazione, tramite il pesto alla trapanese, dell’identità di Paceco e dei paesi limitrofi, «terra di mulini, di saline, di bagli, di torri, di porti, grovigli di culture, religioni, saperi e sapori, che da sempre convivono e continuano a prosperare in un equilibrio sociale ed economico davvero singolare».
A tal proposito, basti ricordare che il prestigioso edificio ottocentesco dell’attuale via Lincoln (già Stradone di Sant’Antonino, fuori della cinta muraria della città) ha alle spalle il complesso monumentale e il bastione dello Spasimo, e di fronte l’Orto Botanico, che ospita più di 12 mila specie vegetali provenienti da varie parti del mondo, molte delle quali d’origine tropicale e piante acquatiche, poi introdotte, gradatamente, in parchi e giardini pubblici e privati, arricchendo il patrimonio vegetale autoctono e lo stesso paesaggio mediterraneo. Ciò fosse ancora poco, dal Palazzo Zingone Trabia la vista spazia tra l’incantevole distesa azzurra del mare, la Villa Giulia (limitrofa all’Orto Botanico) e un tratto del Foro Italico, dove ancora all’inizio del Novecento sfilavano le lussuose carrozze e i cocchi principeschi dei signori che sperperavano in città la rendita fondiaria e buona parte del reddito prodotto dallo sfruttamento selvaggio del lavoro contadino.
Non è stata quindi scelta a caso la sede dell’evento, considerato che il pesto alla trapanese (meglio noto localmente come “agghiata trapanisa”) è, sì, un piatto fortemente radicato a Paceco e nei dintorni, ma testimonia nel contempo della città e della campagna, del locale che viene da lontano e che tende a divenire globale, universale. «Piatto di terra e di mare – scrivono gli autori –; piatto storico, buono per contadini e marinai; piatto che ha parenti sparsi in tutto il mondo: si pensi all’agliata, quella salsa medievale, che [grazie alle] virtù dell’aglio, alimento ambivalente, un po’ condimento e un po’ medicamento, ha diffuso la cultura del pesto».
Cultura del pesto di cui, oltre agli autori del saggio, il 24 giugno hanno dato una dimostrazione eloquente a Palermo l’equipe del noto chef trapanese Peppe Triolo con il suo “cooking show” e, in qualche misura, anche il panificatore della Sicilia orientale Mattia Vescera, che ha offerto e guidato una gradevole degustazione di pane ottenuto da «grani antichi, come la Tumminia e il Russello, detto localmente anche Russìa, Ruscìa o Tallarò, riecheggiando l’area di provenienza: Taganrog, città della Russia meridionale europea. Dopo gli interventi di Liberto e Cammareri (cui acceneremo), a dominare la scena sono stati soprattutto i “busiati” al pesto trapanese e – insieme ad essi – anche gli intermezzi canori (con Mario Liberto al pianoforte) dell’animatrice musicale e cantante Folk, Patrizia Genova. Presentazione di libro all’insegna della più gaia convivialità, insomma.
«De sempre – spiegava d’altronde a Ragusa nell’ormai lontano 1989 Corrado Barberis – l’uomo d’occidente è in cerca di una giustificazione culturale per i piaceri della tavola. Così l’elegante contrapposizione ciceroniana del latino convivio al greco sissizio, suggerendo che il banchetto era occasione di vivere insieme a Roma ma di semplice ingurgitazione ad Atene, istituisce la conversazione come alibi per la gola». Ma nel nostro caso, il piacere della gola non è fine a se stesso: la tavola diventa «il punto di partenza per raccontare e vivere il vissuto di un territorio». È l’altare di quella onesta voluttà, che già a metà del Quattrocento ispirava il breve trattato “De honesta voluptate et valitudine” di Bartolomeo Sacchi detto il Platina (1421-1481), umanista, gastronomo e futuro direttore della Biblioteca Pontificia, istituita dal papa Sisto IV. Per dirla tutta, come già per IL Platina, così per gli autori del “Pesto alla Trapanese” la buona cucina deve essere gradevole e sana. Oltre a gratificare il palato, l’olfatto e la vista, deve giovare alla salute. E se è vero che ogni paese dell’area in cui sono echeggiati i primi vagiti dell’agliata trapanese ha elaborato una propria ricetta, precipitato storico di «un’evoluzione secolare che racchiude cultura, economia, arte e paesaggio che insieme determinano l’identità del territorio stesso», è pure un dato di fatto che tutte le strade degli alimenti insaporiti con il pesto alla trapanese sono «farmacie a cielo aperto».
Non può allora stupire se né Liberto né Cammareri hanno mai preso posizione in merito all’annoso dibattito campanilistico sulla località siciliana dove si presume che sia stata preparata per la prima volta la salutare salsa. Si tramanda che essa fece la sua prima comparsa nel porto di Trapani, dove dei marinai genovesi provenienti dall’Oriente fecero conoscere ai loro colleghi siciliani il pesto a base di basilico, aglio e pinoli, che poi è stato modificato con l’uso di prodotti tipici del luogo fino ad assumere le caratteristiche dell’attuale pesto rosso, variamente preparato e combinato. I Nostri si limitano a scrivere che tutto lascia supporre che le origini del pesto alla trapanese «possano essere ricondotte alla cultura orientale, mentre, l’introduzione dell’olio, come elemento amalgamante, è d’ispirazione mediterranea», per concludere che l’agliata trapanese «può essere considerata la prima salsa siciliana a base di olio extravergine di oliva».
La stessa pasta con il pesto alla trapanese, di cui mena vanto l’intera «propagine elima di Sicilia», è presentata dagli autori come un piatto con cento varianti, che però, a loro avviso, anche quando è arricchito di pesciolini infarinati e fritti, come nel caso della “pasta cu l’agghia e pisci fritti” di Favignana, rimane sempre cibo povero di derivazione contadina. In ogni caso, gli ingredienti essenziali del pesto alla trapanese (secondo un apposito priorato di prodotto costituito nel 2012) sono: aglio rosso di Nubia (frazione di Paceco), pomodoro “pizzutello” o di “pennula” (sostituibile solo eccezionalmente con un prodotto similare autoctono), mandorle miste dolci o amare, basilico fresco a foglia larga, olio extravergine d’oliva delle Valli Trapanesi, sale marino delle saline di Trapani e Paceco con l’aggiunta facoltativa di pecorino siciliano stagionato, pepe o peperoncino, mollica tostata. I tipi di pasta: jolanda (nota anche come margherite), busiati, cavati, caserecci, maccheroni.
Sì, anche i maccheroni, la pasta fresca “pertusata” più amata dai siciliani, la cui ricetta è stata inserita con il nome «Maccaroni siciliani» nel “Libro de arte coquinaria”, scritto forse a Roma tra il 1464 e il 1465 da Mastro Martino de Rossi, vale a dire dalla prima “firma” importante della cucina italiana: «Piglia de la farina bellissima, et impastala con biancho d’ovo et con acqua rosa, overo con acqua communa […] et fa’ questa pasta ben dura; dappoi fanne bastoncelli ben longhi un palmo e sottili quanto una pagliuca. Et togli un filo di ferro longo un palmo, o più, et sottile quanto uno spagho, et ponilo sopra ditto bastoncello, et dagli una volta [un giro] con tutte doi le mani sopra una tavola; dapoi caccia fore il ferro, et ristira [ritrai] il maccherone pertusato in mezo».
A parte i “maccaroni pertusati” di rinascimentale memoria, che nel territorio elimo hanno avuto meno fortuna dai cugini “busiati”, tutti gli altri prodotti che concorrono a magnificare la gloriosa “pasta cu l’agghia a trapanisa”, sono stati descritti nel saggio e illustrati negli interventi a braccio degli autori, che peraltro si sono fatti pure carico di accennare ai condimenti aggiuntivi (pesce fritto, melanzane, patate, zucchine, salsiccia) e agli attrezzi per preparare il pesto (mortaio in marmo, legno d’ulivo o creta grezza). Certo, Mario Liberto e Wolly Cammareri sono intellettuali di diversa estrazione culturale e differenti percorsi formativi: agronomo, giornalista, scrittore di formazione cattolica e autore di diversi saggi, il primo; giornalista di lungo corso, dotato di rara sensibilità sociale d’impronta laica e appassionato propugnatore di una cultura alimentare volta a salvaguardare, assieme agli aspetti nutrizionali, le tradizioni locali e la sicurezza alimentare, intesa come strategia di ricerca e tutela delle qualità organolettiche e microbiologiche degli alimenti. Ma è un fatto che nel saggio non c’è una sola pagina dove non si ribadisca che la salute si costruisce a tavola o che la cucina tipica, opportunamente valorizzata, può fungere da volano per lo sviluppo locale, tanto più se testimonia, come il pesto alla trapanese, di quell’antico stile alimentare sorto contemporaneamente alle prime civiltà del Mare Nostro e adesso apprezzato ben oltre i confini originari.
A scoprire per primi l’importanza della cucina mediterranea sono stati alcuni medici di cultura celtica abituati a una dieta ricca, ipercalorica, squilibrata e intrisa di grassi d’origine animale, che tanta parte hanno avuto, purtroppo, nella crescita degli infarti, delle vascolopatie, dell’ipertensione, dei tumori. L’americano Stamler, uno dei massimi studiosi dell’arteriosclerosi, già negli anni Cinquanta denunciava gli squilibri nutrizionali esistenti nel suo paese e additava a modello la nostra cultura alimentare. «Bisognerebbe imitare – notava – le abitudini alimentari dei popoli mediterranei a base di pasta, vino, verdure e olio di oliva». Di lì a poco, un suo altrettanto autorevole collega, Ancel Keys, reduce di una vacanza in Calabria, scrisse “Mangiar bene e star bene”, in cui si può leggere: «Questi mediterranei la sanno da secoli e secoli più lunga di noi, si sono sempre alimentati in maniera corretta». A prendere posizione in difesa della dieta mediterranea è stata pure la stampa britannica: se The Economist ha definito la dieta nordica “the western way to die”, la via occidentale per morire, il Time gli ha fatto eco additando “the italian way of eating”, la via italiana del mangiare.
Nel 1977 il Senato degli Stati Uniti nominò addirittura una commissione di nutrizionisti e rappresentanti dei consumatori per scandagliare le abitudini alimentari statunitensi per correggere con misure dietetiche le patologie discendenti da eventuali squilibri nutrizionali. «I risultati cui pervenne questa commissione – spiegherà alcuni anni dopo il professor Andrea Di Benedetto, docente di malattie cardiovascolari – furono veramente sorprendenti non soltanto per gli americani, ai quali si suggeriva di modificare radicalmente le loro abitudini alimentari e di adottare quelle mediterranee ma anche per noi che, pur conoscendole, le avevamo abbandonate per uniformarci alla moda della carne, del burro, della panna e degli oli di semi dei popoli nordici».
A mettere in discussione le concezioni dominanti negli anni 50-70 sull’arteriosclerosi e sulle complicanze, angina e infarto, furono i risultati del tutto inaspettati di una ricerca epistemologica sull’infarto, progettata e diretta da Ancel Keys in sette nazioni: Finlandia, Danimarca, Olanda, Stati Uniti, Grecia, Italia meridionale, Jugoslavia. Si sapeva già che i popoli nordici erano più esposti al rischio infarto che i mediterranei; e si voleva capire fino a che punto c’entrassero le abitudini alimentari. Dopo cinque anni di osservazioni scrupolose su diecimila soggetti tra i quaranta e cinquantanove anni «furono accertati 1360 casi di infarto in Finlandia e 76 casi nell’Isola di Creta […]. Con l’introduzione presso i Finlandesi della dieta mediterranea si è accertata, dopo altri cinque anni, una riduzione delle morti per infarto del 24% negli uomini e del 51% nelle donne».
Tutto questo (anche se non è ricordato nel libro) è parte del patrimonio di conoscenze di Mario Liberto e Wolly Cammareri. Finisce perciò per dare maggiore spessore e consistenza al loro progetto culturale, che peraltro ha cominciato a decollare con l’inserimento di Sua Maestà il Pesto alla trapanese tra i “Prodotti agroalimentari tradizionali siciliani” riconosciuti dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, su proposta della Regione Siciliana. Se poi si tiene conto che questo saggio è stato concepito dagli autori come il primo di una serie di “quaderni” sui piatti tipici della Sicilia occidentale, si può tranquillamente scommettere che il successo dell’iniziativa editoriale è assicurato, tanto più che a settembre l’Università degli Studi di Palermo inaugurerà un nuovo corso di laurea in Scienze e Tecnologie Agro-alimentari. E si può pertanto sperare che il dipartimento competente voglia prendere in considerazione gli stimoli provenienti dall’esterno.
Se sono rose fioriranno, però. Per il momento si può affermare con certezza soltanto che alla presentazione del saggio sul Pesto alla trapanese erano presenti personalità come monsignor Giuseppe Liberto, già direttore della Cappella Musicale Pontificia “Sistina”, e il dott. Renato Piazza, dirigente in quiescenza dell’Assessorato all’Agricoltura della Regione Siciliana, che nella stessa occasione è stato insignito del Premio “Arga Sicilia” 2015 «per la sua passata attività volta a favorire lo sviluppo e a sostenere la presenza dell’assistenza tecnica nelle aree rurali». A consegnarglielo è stato il presidente dell’Arga Sicilia, Mario Liberto, l’intellettuale poliedrico, autore del libro “Cuscus, storia, cultura e gastronomia” (Premio Gourmand Wold Libri Awards 2013) e ora, insieme con Wolly Cammareri, anche di questo primo quaderno sui piatti tipici della Sicilia occidentale. Ad entrambi va la riconoscenza dei siciliani orgogliosi della loro identità e i miei personali auguri di buon lavoro.

Pippo Oddo
Palermo 29 giugno 2016

Nella foto (da sinistra) Ettore Amato, Wolly Cammareri, Mario Liberto e Peppe Triolo