Il lavoro “a chiamata” sostituisce i voucher, cosa cambia

Il lavoro a chiamata, allo studio del Governo, sostituirà i contestati Voucher con due cambiamenti: i limiti d’età oggi previsti dalla legge e il costo dell’ora di lavoro che passa da 10 a 25 euro. Pare che il “nuovo” strumento di contrattazione è noto anche con il nome di contratto a intermittenza o job on call, introdotto nel 2003 introdotto dalla legge Biagi e in seguito modificato con il Jobs Act, la riforma del lavoro voluta dall’ex premier Matteo Renzi.

Come funziona. Il contratto di lavoro intermittente sarà regolamentato dall’articolo 13 del decreto legislativo 81/2015, e prevede che il lavoratore si metta a disposizione di un datore di lavoro che può utilizzarne “la prestazione lavorativa in modo discontinuo o intermittente, a seconda delle esigenze individuate dai contratti collettivi anche con riferimento alla possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno”.

Chi può stipulare il contratto. Il contratto a chiamata può essere stipulato con soggetti con meno di 24 anni di età, “purché le prestazioni lavorative siano svolte entro il venticinquesimo anno”, e con più di 55 anni. Il decreto allo studio del governo pare che cancellerà i due limiti d’età. Il lavoro a chiamata sarà utilizzabile per tutti.

Retribuzione. Un’ora di lavoro a chiamata costa tra i 20 e i 25 euro, mentre con i voucher per l’impresa era di 10 euro tutto compreso. La variabilità dell’importo non dipende solo dal settore, ma anche dalla cosiddetta indennità mensile di disponibilità. Il lavoratore può dichiararsi disponibile ad accettare comunque la chiamata dell’azienda, salvo che in caso di malattia. In questo caso ha diritto a una somma aggiuntiva, pari al 20% della busta paga. Il lavoro a chiamata è un contratto vero e proprio. Prevede le ferie, la malattia, il versamento di contributi per la pensione che non sono infinitesimali. Resta uno strumento ad alta flessibilità. Ma garantisce di più il lavoratore: se il dipendente supera le 400 giornate di lavoro nell’arco dei tre anni, per l’azienda scatta l’obbligo di assunzione con contratto stabile. Un vincolo che per i voucher non esiste. Mentre alle aziende costa di più.

Malattia e retribuzione. In caso di malattia o di altro evento che gli renda temporaneamente impossibile rispondere alla chiamata, “il lavoratore è tenuto a informarne tempestivamente il datore di lavoro, specificando la durata dell’impedimento, durante il quale non matura il diritto all’indennità di disponibilità. Se il lavoratore non informa il datore perde il diritto all’indennità per un periodo di 15 giorni, salvo diversa previsione del contratto individuale. “Il rifiuto ingiustificato di rispondere alla chiamata – si legge nel decreto – può costituire motivo di licenziamento e comportare la restituzione della quota di indennità di disponibilità riferita al periodo successivo al rifiuto”. Quanto alla retribuzione, per il contratto a chiamata, il lavoratore deve ricevere, “per i periodi lavorati e a parità di mansioni svolte” un trattamento economico e normativo analogo a quello di un lavoratore di pari livello, anche se questo è assunto con un contratto diverso. Lo stesso discorso vale per le ferie e per i trattamenti di malattia, infortunio, congedo di maternità e parentale.

Settori interessati. A partire dall’1 gennaio 2018, la possibilità di svolgere lavori occasionali resta affidata al contratto a chiamata, strumento utilissimo anche nell’attività agricola, specie per l’attività giornaliera in tutti i settori produttivi. Il contratto di lavoro intermittente è ammesso, per ciascun lavoratore con il medesimo datore di lavoro, per un periodo complessivamente non superiore a 400 giornate di effettivo lavoro nell’arco di tre anni solari, ad eccezione dei settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo. In caso di superamento di questo periodo, si legge nel decreto, “il relativo rapporto si trasforma in un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato”.

Per l’anno trascorso Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna sono le regioni che ne hanno fatto maggior ricorso – Secondo la stima fatta dalla Uil, il 64% dei buoni-lavoro sono venduti al Nord (93,2 milioni), e il restante 36% viene suddiviso quasi equamente tra il Centro (26,3 milioni) ed il Mezzogiorno (25,8 milioni). Il numero delle persone retribuite con i voucher è – sempre secondo la Uil – pari a circa 1,5 milioni. Se si analizza la distribuzione dei voucher a livello regionale, tra le prime 5 Regioni per numero di buoni-lavoro venduti si trovano: la Lombardia (27 milioni), il Veneto (18,5 milioni), l’Emilia Romagna (18,2 milioni), Piemonte (11,9 milioni) e la Toscana (10,6 milioni). Diversa la prospettiva regionale se si guardano gli aumenti, rispetto al 2015: l’incremento più alto si riscontra in Campania (+43,7%), seguita dalla Sicilia (+39,1%) e dalla Toscana (+32,1%). Fra le provincie in testa c’e’ Milano (con 9,8 milioni venduti), seguita da Torino (5,6), Roma (5,1), Brescia (4,2), Bologna (3,9), Verona (3,8), Bolzano (3,6), Venezia e Padova (3,3) e Treviso (3,2). Turismo e commercio i settori in cui si utilizzano di più Se l’analisi si sposta sul tipo di attività nelle quali viene utilizzato il voucher, oltre il 50% (cioè oltre 73 milioni) viene utilizzato in settori ai quali è stato esteso nel 2012 (industria, edilizia, trasporti e altro). Fra gli altri settori in testa c’è il turismo (21 milioni) e il commercio (18,4). Fanalino di coda l’agricoltura con 2,1 milioni, settore per il quale era stato creato il voucher, e i lavori domestici 4,7 milioni.